Vi è capitato, in un pomeriggio che urla noia, di essere travolti da una musica fruibile ma visionaria? Da un mash-up – nella fattispecie – servito, fra una battuta e una chiacchiera, da Radio Deejay? DJ Aladyn, classe 1976, può essere definito “rivelazione” o “scoperta” solo dai giovanissimi che per ragioni di età “non possono sapere” o da gente particolarmente distratta che per troppo tempo – tempo che Aladyn ha dedicato al turntable e alla produzione – ha pensato che l’hip hop fosse solo una moda. Dal 2020 protagonista di “Summer camp”, anarchico programma del pomeriggio di Deejay insieme a Nikki, Federico Russo e Francesco Quarna, Aladyn è l’alchimista che trasfigura suoni, battiti e melodie. Pratica non nuova, il mash-up. Pratica prettamente sperimentale fino all’arrivo dell’hip hop, dagli Eighties in avanti il mash-up deflagra fino a diventare moneta condivisa. Soprattutto nei club, dove i dj più abili e competenti sganciano mostruose bombe in grado di eccitare qualsiasi dancefloor. La base tratta dal brano “x”, la parte vocale tratta dal brano “y” e il gioco è fatto. Ecco il mash-up. Semplice? Non quanto sembra. Per questo abbiamo incontrato Aladyn. Per saperne qualcosa di più.
Quando l’idea di creare un nuovo brano mescolando due brani già esistenti ha fatto irruzione nel tuo percorso professionale?
Io parto dal mondo dello scratch, dei dj che lavorano molto sui piatti. Il masi-up è entrato nella mia vita soprattutto da quando ho iniziato a utilizzare Serato, il software che uso per costruire i set. Un software simile dà delle informazioni sulla tonalità del pezzo. Io non sono un musicista, ho sempre fatto tutto da solo, quindi ho dovuto allenare molto l'orecchio per imparare bene a usare l’unico strumento che ho mai “suonato”: il giradischi. Serato mi permette di separare gli strumenti presenti in un brano. Oggi è possibile estrapolare una voce e cercare una traccia sonora che si possa abbinare a quella voce. Una volta era più difficile trovare le cosiddette “a cappella”.
Visto che trattiamo di un genere che ha una storia alle spalle, credi si possa parlare di “arte del mash-up”?
Credo sia un'arte a tutti gli effetti. Quello che mi piace fare in “Summer camp” è creare un mash-up che sia figlio di brani molto diversi. Accostare suoni e melodie che sembrano già fatte gli uni per le altre è troppo facile. Cerco di osare. C’è questa rubrica, all’interno del programma, chiamata “Il mash-up in faccia”, in cui creo un mash-up utilizzando un brano dell’ospite di turno. Poi glielo facciamo sentire e vediamo la reazione. Piazzare, davanti a Brunori Sas, un suo pezzo su una base degli Offspring è stato molto divertente. Oppure Joan Thiele con David Guetta. Mondi distanti che rendono l’esperimento avvincente.

“Summer camp” suona selvaggio, libero. Un programma che sembra sfidare le tipiche griglie imposte da un palinsesto.
Noi siamo amici che si frequentano anche fuori dagli stud. Non siamo una boy-band costruita a tavolino. Andare in onda insieme significa mandare in onda il nostro rapporto. Le nostre battute, le nostre divagazioni, la nostra idea di musica. E poi ci sono gli ascoltatori, molto presenti con i messaggi, con i vocali di WhatsApp. Ascoltatori con i quali cerchiamo e troviamo un serrato botta e risposta.
A volte il vostro programma mi ricorda lo spirito libero di Albertino ai tempi del Deejay Time anni ’90. Altra musica, completamente, ma è simile la capacità di condividere con gli ascoltatori il proprio peculiare linguaggio.
Capisco cosa intendi, ma nella radio di qualche anno addietro era possibile osare qualcosa di più. Nel 2025 il nostro programma è evidentemente figlio di un altro mondo e di un’altra radio. Il nostro è un mix eclettico di brani nuovi e vecchi. Ci sono anche tanti pezzi italiani. Ma il parlato, talvolta, sembra essere il vero catalizzatore d’attenzione. Forse perché ormai, con Spotify, ognuno può costruirsi la playlist che preferisce, mentre la chiacchiera suona come la parte più inedita e imprevedibile del programma.
Una chiacchiera, la vostra, che sfida il tono degli speaker impostati.
Sì, non è la solita simpatia un po’ forzata di chi vuol far ridere a tutti i costi. Diciamo che ci divertiamo molto. E sfruttiamo le tante variabili che solo la fitta interazione col pubblico ci può regalare.
Tornando ai mash-up, sorge una considerazione. Parlavo di recente con un artista che ha vissuto anche la vecchia discografia e lui ribadiva che “un tempo c’erano i direttori artistici”. Ebbene, talvolta la tua abilità nel trovare una nuova base per un determinato brano sembra quasi essere un suggerimento indiretto all’artista che beneficia del mash-up: guarda che base si poteva creare per il tuo pezzo…
Lo so, a volte capita. Negli ultimi tempi ho approfondito il mio rapporto col pop italiano, genere per cui non stravedo. E ho spesso trovato il modo, con altre basi, di farlo suonare più mio. Forse anche migliore, a volte.
Qualcuno degli ospiti di “Summer camp” a cui hai fatto ascoltare il mash-up è rimasto un po’, come dire, interdetto?
Brunori Sas sembrava effettivamente stupito. Anche i Planet Funk, incrociati con Amy Winehouse, hanno apprezzato tantissimo l’esperimento dopo un attimo di smarrimento. È bello vedere le facce degli ospiti subito dopo l’ascolto. Poi io mi occupo anche della parte visual e questo è un elemento che può fare la differenza. Tipo quando è venuto Motta, che ha molto lo stile di Richard Ashcroft. E guarda caso la canzone di Motta si sposava molto bene, sia come audio che come video, a “Bittersweet symphony”.
Uno dei più assurdi era quello in cui Gigi D’Agostino incontrava gli Anti-Flag. Ha fatto qualche giro particolare quel clash intelligentemente profano?
Non lo so, perché purtroppo pubblicare i mash-up su YouTube o sui social è diventato difficile. YouTube tende a buttarli giù quasi tutti. Si possono ascoltare su alcuni siti di streaming, questo sì, ma i social sono diventati spietati, per via del copyright.
Come nasce un mash-up firmato Aladyn?
Posso partire da un pezzo vecchio che voglio far suonare “nuovo” o da un pezzo pop nuovo che voglio far suonare strano, esotico. In un club arrivo anche alle 150 battute al minuto su cassa dritta, quindi, a quei ritmi vertiginosi, puoi immaginare quanto può suonare energizzante e surreale l’incontro fra due pezzi. Cerco un drop letale che possa ribaltare la pista. Come quando sotto “Badabum cha cha” di Marracash ho messo un pezzo drum n’ bass di Chase & Status.
Pensi prima alla musica del pezzo o alla parte cantata/rappata?
Per prima cosa estrapolo la parte vocale. Comincio a farla girare in loop e vado a cercare i suoni. A volte non l’azzecchi subito, la ricerca può essere lunga. C’è un grande lavoro di editing, perché magari il ritornello ti cambia le carte in tavola e il beat, di conseguenza, va adattato..
Il primo caso di mash-up che mi lasciò di stucco fu il celebre (e illegale) “album grigio” di Danger Mouse, una fusione fra l’album bianco dei Beatles e quello nero di Jay-Z. Te lo ricordi?
Andiamo indietro di vent’anni circa. Io ero ancora sotto con le scratch, le gare. Nel 1999 andai in tour con Lorenzo per promuovere “Capo Horn”. Stavo imparando a produrre, ma ero ancora soprattutto un dj. Nel 2001 ho iniziato a imparare anche a fare la radio e da circa dieci anni mi misuro con i mash-up. Quello è stato un nuovo inizio. Per il quale ho letteralmente sputato sangue. La grande botta è poi arrivata negli anni del Covid, in cui mi sono a messo a studiare i vari software da un punto di vista più tecnico.
C'è qualche dj che ancora oggi puoi considerare una fonte di ammirazione e ispirazione?
DJ Shadow. Adoro il suo approccio al sampling, la collezione di vinili di cui dispone. “Endtroducing” (1996) ha cambiato il mio modo di concepire la musica. Anche a livello di live e di visual. Nel mondo che Shadow ha creato risiede il senso di essere dj e produttore.

