Kid Yugi, all’anagrafe Francesco Stasi, appena ventitreenne è già riuscito a ritagliarsi il suo spazio nella scena rap italiana col sostegno e l’ammirazione dei massimi esponenti del genere. Il suo ultimo disco, I nomi del diavolo, contiene le collaborazioni con Sfera Ebbasta, Tedua, Noyz Narcos, Geolier, Ernia senza dimenticare quelle con le nuove leve del panorama della musica nazionale, come: Tony Boy, Artie 5ive, Papa V e Simba La Rue. Sulla copertina appare vestito con un abito bianco candido abbinato a una cravatta rossa e guanti di pelle nera mentre è seduto su un trono di morte costellato di teschi e ossa varie. Ai suoi piedi una bolgia indistinta di dannati lo adora come un vero principe. È un omaggio alla famosa opera letteraria di Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, rimandando alla scena del ballo di Satana in cui una processione di anime perse si dirige verso il Diavolo per baciargli, con riverenza, la mano e il ginocchio. Quello che Francesco ha voluto raccontare in questo concept album è il male in tutte le sue declinazioni, così in ogni traccia sviscera una delle forme in cui il male si manifesta sulla terra e anche oltre. Dalla narrazione della vita di strada intrecciata al mondo della droga dallo spaccio al consumo, si passa al racconto dell’amore, sempre non ricambiato, talvolta dal lato di chi insegue talaltra da quello di chi respinge. C’è un male intangibile e uno più materico che si fa sostanza, come le droghe o i gas tossici dell’Ilva di Taranto, a cui viene dedicato il brano omonimo in duetto con Fido Guido, che nel 2006 aveva già denunciato il fatto nella canzone Fume scure qui campionata. Questa è la dimostrazione più evidente nel disco di appartenenza a un certo territorio, la Puglia, che è stata la culla di Kid Yugi e che continua ad esserlo.
Proveniente da Massafra, in provincia di Taranto, nelle sue parole Kid Yugi riversa la rabbia e l’amore per la sua Terra, che descrive nelle sue mancanze e ingiustizie pur riconoscendo nel Sud un marchio di autenticità, che fatica a vedere a Milano. Preferisce “bere la birra al Sud mentre su fanno la fashion week” e sperperare a “Massafra ciò che gratto a M-I”. Nella dicotomia Nord-Sud si sviluppa tutta l’antitesi tra forma e sostanza, immagine e realtà su cui si gioca la sua personale definizione di diabolico e angelico. Nel brano di apertura Kid Yugi si presenta come l’anticristo perché mette a nudo i suoi vizi e le sue debolezze, dipingendosi come peccatore, che nella definizione cristiana si avvicina più al regno di Lucifero che a quello di Dio, eppure da questo racconto ne esce fuori pulito, con quello stesso abito bianco che sfoggia in copertina. È vero, i testi non sono family-friendly e non si possono di certo considerare innocenti, ma è nella ricerca poetica e nella cultura letteraria e cinematografica con cui impreziosisce le barre che va ricercata la bontà. Se è vero che Dio è morto come diceva Nietzsche, oggi non c’è niente di più sacro dell’immagine e dell’idea della perfezione, in questo senso allora si che Kid Yugi è un anticristo, con il suo modo crudo di scrivere e svelare la realtà nelle sue storture e nelle sue contraddizioni. Come quella per cui è un rapper a far conoscere autori come Golding o Bulgakov al pubblico più giovane e non di certo gli intellettuali in giacca e cravatta barricati dietro le loro cattedre da accademici. Gli antieroi sono più puliti dei modelli convenzionalmente accettati, soprattutto se cantano con un riconoscibile accento tarantino.