La finitezza delle cose, il destino che non risparmia nemmeno lei, così esageratamente splendida. Il destino quando consuma l’alcazar dalla formula perfetta, l’amore, la bellezza, una gloria mondana, parrebbe inattaccabile. Il turbinio festoso diventa una rimembranza gettata in mare. Non più granché, un caos indistinto di bene e male, il bambino e l’acqua sporca. E forse è la vera questione: il mondo si mette di traverso. Interferisce in una armoniosa combinazione di fortuna, il caso, così facile per taluni, e l’eccitazione di verificarlo, ci sarà un oggi, un domani, ci saranno anni. La generosità del caso non si risparmia. Promette ancora e ancora. Allora è vero, è tutto vero. Ilary e Francesco. Totti, il capitano. Lei, piuttosto eterea e insieme pragmatica, la virago, ma è ingentilita all’occorrenza, incarna la romanità mentre lui è il talento urlato dagli spalti. La soubrette con diverse chance. La delicatezza apparente inforca una sregolatezza ineducata. È eccitante in fondo, il combustibile per trazione persino nelle nostre esistenze previdenti, accorte, medio-borghesi. Il matrimonio, i sussurri immaginati sulle panche, oltre l’altare. Noi siamo soltanto spettatori. Finché non seguiamo la parabola, non abbastanza appagati, perché nell’armoniosa combinazione non frani mai la sbarra di una contesa, di un errore. C’è questo sempre inzaccherato di gloria mondana. Nel sempre in gran segreto deve sorprenderci la fine. Ed è rassicurante, poiché a frammezzo del tedio corale che accompagni, come un seguito spaiato, le buone e in special modo le cattive stelle, perdoniamo in definitiva, a condizione che smarriscano nell’insieme una tronfia iconicità. Ilary Blasi. La letterina. L’esegeta di un exploit di lustrini di inizio millennio. Le letterine di anni trascorsi, con le siglette e gli stacchetti, una pioggia di mestizia, o angoscia, rimediata dai teleutenti imboniti; jingle che forgiavano identità paradigmatiche, seriali aggiungerei. Non potevano che riparare tutto con un calciatore. Riparare come colombelle, all’ombra di una maschilità ribadita - equinozi ormonali. In fondo, noi donne lo desideriamo pure. Oggi dirlo equivale a una controtendenza masochistica, penso ai vari slogan femministi, plausibilissimi.
La soavità deve essere infranta, l’ancella bianca e cerulea, una faccenda che nelle fantasie meno censurate deve risolversi in camere di albergo anonime, nella frugalità di certi incontri, simili al fuoco arrogante che bisogna spegnere, che si spegnerà, e che vale tutti gli errori a seguire. Il fuoco. Eccola allora lei, Unica, nel documentario che da oggi su Netflix, scritto da Peppi Nocera e Romina Ronchi e diretto da Tommaso Deboni, racconterà una favola oramai rovesciata. Eccola lei l’ancella bianca, consapevole, ricapitolare, la slavina immacolata, e ancora accesa da una romanità che seduce. Piange, lascia che la fragilità diventi la formuletta magica perché ogni donna ne accusi le oscure retrovie. Il tradimento, la sorpresa che rintana spersa all’ombra di talune certezze, inamovibili, e invece l’abbandono. Il colpo di reni necessario. Il corollario che torna nel refrain: in ogni cosa intercettiamo la fine. La fine è il frammezzo del mai annunciato nella gloria mondana. La fine è il riscatto dell’inganno in cui dibattiamo, il mondo digrigna i denti, badate, gli eletti appartengono ad altre schiere. La lente illusoria però ne erge edicole fintamente accorate, credibili. Piange ad un certo punto, a metà del documentario. “Come è possibile” si chiede. L’uomo che aveva amato per vent’anni. È la domanda che tuona in ogni abisso, vi scivola dentro, l’abisso consumato, scalfito, da ogni passione accesa e trasformata dal medesimo caso che aveva promesso. Ma le promesse, si sa, sono il canto delle sirene.