La poesia è una pratica. Un confronto radicale con il proprio inconscio attraverso la parola (il pittore lo fa con i colori, il musicista con le note eccetera). Quando Jacques Lacan ha pronunciato la celeberrima frase “L'inconscio è strutturato come un linguaggio” significava che siamo intrappolati nel linguaggio. Possiamo subirlo (simbolicamente, “accettando la Matrix”) o affrontarlo. Affrontarlo è un atto sublime, quindi ci pone di fronte al mistero primo, la morte. Questo, con la pubblicazione, i premi letterari, il riconoscimento etc. non c'entra un cazzo. La poesia non riguarda il modo in cui Fabrizio Corona balla all’inizio dei suoi Falsissimo a meno che non ne stravolga la formula fino a renderla incomprensibile e vitale, saturandola o meno di tradizioni e variabili imprevedibili, da Marina Abramovich a Gaia #sessoesamba, passando per le sue nobili origini francescane. Insomma, nell’allegria, tutta mia, del naufragio della frase precedente, si tratta di riprendere il naufragio, nel senso di redarguirlo con bonarietà, ché tutto è, come direbbe un cultore dell’induismo, Lila: gioco. Anche l’abisso in cui stiamo calando. Si tratta di guardarlo negli occhi e giocare a chi smette per primo. La poesia smette per ultima se è pienamente consapevole che si tratta, appunto, di un gioco. Pura creazione improvvisata da bambini che non hanno nient’altro da fare.

Guai a chi si presenta adulto a farne parte. Inizierebbe a rompere il caz*o con polemiche sensate, costruirebbe non uno degli infiniti mondi possibili, ma confermerebbe proprio questo, quello che adesso condividiamo, l’immensa scorreggia delle frange più estreme della cosiddetta “realtà”, un’informazione dietro l’altra, catastrofica ma per finta, separando “catastrofe” e “fica” con un labirinto in cui perdersi ancora per qualche millennio, e tutto sempre più sbilanciato verso il secondo termine, che ebbe già i suoi millenari fasti. Inutili mafie del comprensibile! Follia dei venditori di ‘sta minchia! La poesia è autenticamente inopportuna sempre. Sbaglia tutti i calcoli con estremo rigore, tanto da capovolgersi nel suo opposto, e capovolgendosi esiste. L’assunto è che il pensiero precede la materia, ma sempre e soltanto con parametri inattuali, altrimenti finirebbe in banca a cercare manovre vuote quanto omicide. Viviamo dunque in un’allucinazione inconsapevole, strascico ebete di quella cosa che ha per terminali stragi planetarie e un’ansia di chiudere tutto almeno insopportabile. Fuori dalla poesia c’è il limbo della moltiplicazione dei notiziari, niente pani, niente pesci, ma flussi di dati sparati da un gruppetto di coglioni invisibile al vertice. Lì inserirsi a lamentarsi per un’intera vita del fatto che la vita fa schifo perché etc., il che è indubbiamente vero, ma proprio nell’assenza di dubbi continua a morire. Baudelaire odiava i giornali con tutto il suo cuore messo a nudo, quelle stesse forniture di notizie di cui Hegel scriveva come sostituti della preghiera. I giornali. I telegiornali poi sarebbero arrivati a dire la verità di turno da cancellare più velocemente o da appendere su finiti muri. Da quando si vendono realtà di merda solo per criticarle accettandole? Spostarsi quindi di lato e osservare giusto il tempo necessario a creare una raffica di api non così necessarie, infine:
Per fare un prato
bastano un trifoglio, un’ape,
un trifoglio, un’ape
e un sogno.
Può bastare un sogno
se le api sono poche.
Emily Dickinson
