Sembra un patriarca, Carlo Muratori. Consegna l’autenticità di una Sicilia fremente, volitiva. Questa Sicilia la traduce nei suoi pezzi, è un compositore, cantautore, etnomusicologo. Lo preferisco nei suoi brani in lingua, la lingua è la matrice di una rabbia atavica, che deve essere appartenuta alla terra in cui vivo. Così Carlo Muratori mi commuove, vi invito ad ascoltare la sua produzione cantautoriale. Io vi riferirò una parte, il segmento che ha alimentato persino la mia scrittura, che forgia le lontananze e le malinconie tingendole di contraddizioni, non solo di azzurro e di bianchi accecanti. Mi suggerisce l’epica del coraggio e della privazione, i giri di do e gli archibugi con le chitarre sono strumenti di una rivendicazione, la fierezza dei contadini di Avola, i braccianti della rivolta, siamo stati anche questo. E Carlo Muratori lo canta e le percussioni o i fiati smarriscono leggeri e enigmatici come chador. Canta ed è una guerra, compone e sono corolle di fiori sulla nostra vergogna o viltà o subordinazione dedotta dentro una storia di prevaricazione, poco consona a una guantiera di cannoli, al rosolio e al feticcio cinematografico che questa Sicilia di Carlo Muratori, degli uomini epici e orgogliosi, che pure lo siamo stati, sdegnerebbe legittimamente, confermando l’adulterio. Il feticcio che vuole persino letteratura e tutte le marianna ucria e le saghe e il folklore che vi hanno orlato sopra. Carlo Muratori ha raccontato l’arroganza del potere in questa terra dove sul ciglio del mare, blu e avvitato, volano ancora fenicotteri rosa, eppure più in là fumano le torrette e i silos delle fabbriche e lo chiamano il triangolo della morte, perché ci ha avvelenato tutti. I pesci con la gibbosità o con le tre lische, l’acqua al mercurio, la strage di innocenti malati di cancro, i bambini e i feti deformati. Il triangolo della morte. Ascoltate Turi nun parrò, alla fine mi ritrovo sempre con le lacrime agli occhi. Dove oggi muore avvelenata l’innocenza, un tempo c’erano dune dorate di sabbia e cigli selvatici e le acque del mare si stemperavano nel verde cristallo e in fondali adamantini. Negli anni Sessanta Marina di Melilli era un giardino edenico, arrivarono le ruspe, il potere, la politica, rasero al suolo ogni dettaglio di una comunità semplice di pescatori, la chiesetta e le case e anche i gigli esplosi e turgidi sulle dune brucianti. Allora ascoltate Marina di Melilli, la voce di Carlo vi strapperà il cuore dal petto, entrerete nel medesimo strazio e ineluttabilità, perché soltanto un siciliano conosce la pesantezza, la gravità, la disperazione di esserlo.
Carlo Muratori è la Sicilia che mi è entrata nel sangue, estranea e violenta, delicata e spezzata, il giglio selvatico sulle dune di Marina di Melilli, prima che arrivassero le ruspe e il potere trucidasse la bellezza e l’eroe-pastore, che, solo, ergeva il suo coraggio nell’unica casetta rimasta vigile nel borgo di pescatori. Tutto il resto è adulterio, cartoline fasulle per turisti di passaggio: film, serie tv, certi romanzi. C’è ancora la grande musica, ed èla musica che traduce lo spirito segreto di una razza di gente. Il viso arso dei coloni nella rivolta di Avola è appartenuto a questa terra, meglio che certe empietà, molto più televisive. La Sicilia pietosa in un lamento è nell’inafferrabile Vitti na rasta. Vi riferisco i brani che mi commuovono oltremodo, Carlo Muratori ha fatto molto altro. Ma lo scoprirete da soli, ne sono sicura. Di certi azzurri persi dietro l’orizzonte con tutte le nostre speranze, di tutto ciò ne avvertirete da soli, ne sono sicura, la nobiltà e il fato.