Serve un po’ di strada se si vuole fare una serie che parli di rap e di periferia. Il quartiere deve diventare un personaggio della storia. Così è Qt8 in Hype, la serie presentata alla Festa del cinema di Roma diretta da Domenico Croce e Fabio Mollo, e ora disponibile su Rai Play. Una vicenda in cui la musica diventa riscatto sociale e possibilità di evasione. Una strada diversa, grazie al rap, diventa possibile. Nel cast anche Ernia, la “voce della città” che racconta il percorso di Anna (Martina Sini), Luca (Lorenzo Aloi) e Marco (Gabriele Careddu). Abbiamo intervistato uno dei due registi, Domenico Croce, e l’attore Luigi Bruno.
Nei quartieri come Qt8 le contraddizioni si accentuano. Anche in Hype questo emerge chiaramente. Come ci avete lavorato?
Domenico: Sì, è il quartiere di riferimento della serie, da lì arriva anche Ernia. Qt8 nasce come un'utopia urbanistica, di quelle classiche del Novecento, nel senso che Qt8 sta per quartiere triennale ottavo, ed è stato progettato per mettere insieme più classi, per unire persone di diversa estrazione sociale. Come periferia Qt8 ha una sua unicità, un percorso che l'ha portato ad avere un'identità molto definita. Noi all'interno della serie abbiamo cercato di trattarlo come se fosse un personaggio.
L’elemento chiave è ovviamente la musica.
Luigi: Ogni personaggio della serie la intende come mezzo per scappare dal proprio contesto sociale. In Hype c'è il ragazzo cresciuto in una situazione più complicata dal punto di vista familiare, magari con il padre in giri strani; una ragazza che invece viene da un contesto più ordinato, e sicuro; un altro invece ha una famiglia che deve affrontare delle difficoltà economiche. Ogni personaggio ha un vissuto diverso. Il mio viene da Napoli, “da giù”, e va a Milano per inseguire il suo sogno. La cosa bella è che in realtà tutti convergono verso lo stesso punto, verso lo stesso obiettivo: un futuro diverso.
E invece la scelta di inserire Ernia come voce narrante?
Domenico: Ernia è stato molto disponibile sin da subito. Uno degli sceneggiatori, Libero Pastore, viene da Qt8 ed è un grande appassionato di musica rap. Ovviamente sapeva che Ernia era per così dire suo vicino di casa. Nel momento in cui la serie ha cominciato a prendere una piega produttiva Ernia ha risposto positivamente al progetto e si è detto interessato a partecipare. In tutte le fasi di brainstorming successive sono emerse varie idee sul suo ruolo. Alla fine quella che ci è sembrata più naturale è che lui in qualche modo, oltre ad interpretare se stesso, era che impersonasse il quartiere: all'inizio di ogni episodio noi sentiamo la sua la sua voce narrante unita a delle immagini specifiche di Qt8. È come se fosse lo sguardo della città sulla vicenda dei ragazzi.
Questo si vede chiaramente nelle vostre scelte di regia, che credo derivino anche un po' dal videoclip musicale.
Domenico: Io e Fabio Mollo ci siamo ispirati molto ai videoclip, che negli ultimi 4-5 anni sono tornati su questo tipo di stile, in cui c'è una forte commissione tra il colore e il bianco e nero. Il quartiere viene visto come un blocco, appunto, ma anche come un labirinto. Abbiamo pensato anche all’estetica dei videoclip di inizio anni Novanta, in cui il rap da musica molto popolare, nel senso di musica da strada, stava sfondando. In un certo senso abbiamo cercato di saccheggiare quell'immaginario.
Invece di quell’equilibrio tra violenza e cultura rap cosa pensate?
Domenico: Personalmente non amo la volgarità comunicativa. Fortunatamente il lavoro di Ernia non è questo. Anzi, lui fa delle disamine molto approfondite all'interno dei suoi testi. Allo stesso tempo non possiamo definire il rap musica classica. È un genere che nasce dalla strada e questa cosa si è mantenuta nel corso degli anni. Anche noi dovevamo fare lo stesso, almeno in parte. Quindi sì, c'è molta strada in Hype.
Luigi: C’è perché il rap rappresenta la strada, e questa è vera, cruda, ingiusta. Sebbene io sia contrario alla violenza linguistica vedo invece, in alcuni casi, nel momento in cui subentra un intento documentaristico, cioè quando punta a far vedere quello che vivono le persone, allora diventa un’arte apprezzabile. Quando invece la violenza che viene rappresentata non porta a nessuna riflessione allora non serve.