Metti un sabato sera in un’affascinante cittadina della provincia emiliana. Metti una serata a teatro, al Magnani di Fidenza, di quelle che finiscono con applausi sonori, che si toccano quasi. Sul palco ci sono il cantautore Claudio Sanfilippo e la sua band (Val Bonetti, Marco Brioschi, Rino Garzia). Lo spettacolo – inserito in “Mangiamusica”, rassegna curata dall’infaticabile Gianluigi Negri – s’intitola “Canzoni intelligenti". Manca qualcosa? Sì. Ci starebbe bene Cochi Ponzoni su quel palco. E infatti c’è. Attore vero, consumato, prima che si alzino i riflettori ci aspetta in camerino armato di una gentilezza che sa d’antico. A essere antichi non sono certo i suoi contenuti – anzi –, più che altro sembra antico il modo leggero di stare al mondo e affrontare la gente. Provate a fissare un’intervista con un influencer, da poco ventenne, che ha bucato la soglia (soprattutto psicologica) dei cinquantamila follower e fatemi poi sapere quanto è stata agile l’interazione col soggetto in questione. E frenate subito la parola “boomer”, please, che qui non c’èntra un ca**o. C’entra che Cochi Ponzoni, a Fidenza anche per ritirare il Premio Mangiacinema-Creatore di sogni, ha vissuto, recitato, vissuto, recitato, vissuto e recitato ancora. Una vita su e giù dai palchi senza perdere la prospettiva. Su di sé. Su un mondo (mondi, forse) che ha visto e assorbito. La sensazione, parlandogli, è che vivere così 84 anni abbia un senso. Viverli consapevoli che quest’anno si avrà solo un anno in più, molto meno.
Poi la gente, al Magnani, ha applaudito tutti. Sono andati in scena i brani più amati di Cochi e Renato e della grande canzone milanese (Gaber, Jannacci, I Gufi), insieme a qualche gemma firmata Sanfilippo, ma prima, una conversazione con Cochi. Avvolti da un’atmosfera solenne e informale allo stesso tempo. “I premi fanno piacere. Sono sempre una sorpresa – ci dice. Mi piace incontrare la gente. Quello che mi preme è raccontarmi e raccontare i tanti attori straordinari che ho conosciuto e con cui ho lavorato”. Ponzoni è un ipertesto vivente. Se dopo una qualsiasi dichiarazione gli chiedi una delucidazione, ti fa sbirciare il pezzo di vita che porta sul palco. “Racconto e canto i ricordi, quei momenti miei che hanno anche un collegamento con la storia del nostro Paese. Fin da ragazzino ho avuto la fortuna di frequentare l’ambiente artistico milanese del dopoguerra. Pittori, intellettuali, uomini di cinema”. Faccia i nomi, maestro, spalanchi la sua personale finestra. E allora nomina Lucio Fontana, Piero Manzoni, Umberto Eco, Dino Buzzati, “persone con le quali ho trascorso le serate nelle osterie milanesi”.
Il tempo, gli amici, Renato Pozzetto
Biografie. Biografia di un attore, di un artista, di un tempo. Di un modo un po’ sbilenco, amabilmente genialoide, di intendere la vita. “La mia vicenda personale e professionale ha preso vita in un contesto di amicizia. Io, Renato Pozzetto, Lino Toffolo, Bruno Lauzi, Enzo Jannacci e Felice Andreasi. Un nucleo nato attorno al Derby. Venivano a vederci fin da Roma. Alberto Sordi, Nino Manfredi, Lina Wertmüller volevano vedere cosa succedeva in questo locale di cui tanto si parlava. Ma anche Mario Monicelli, Marco Ferreri. Facevamo cabaret, d’impostazione un po’ francese, con tanta improvvisazione. L’unico modo per far funzionare qualcosa di simile era essere buoni amici, giocare su un’intesa perfetta”, ci racconta, quasi evocando la ricetta di una pozione magica. Tutti famosi, in quel gruppo. Chi più, chi meno, hanno marchiato la storia di un certo teatro italiano. Alcuni, più spesso, hanno cantato (Jannacci); altri si sono presi il cinema. Con Renato Pozzetto un rapporto fraterno e ricchissimo: “La nostra diversità è stata la nostra fortuna. Siamo cresciuti insieme, ma abbiamo sempre avuto caratteristiche molto diverse. Renato era un battutista eccezionale con un grande senso del comico. Io ero più cervellotico, conoscevo varie lingue, infatti il mio primo lavoro è stato in aeroporto per Lufthansa, British Airways e Swiss Air. Ho studiato anche il russo. A Renato delle lingue importava niente, preferiva la moto. Amava i bolidi, i motori, era un pilota favoloso. Ha fatto anche la Parigi-Dakar e la Mille Miglia. Io viaggiavo parecchio, lui amava gareggiare. Le nostre differenze, però, creavano un totale che aveva senso. E che soprattutto aveva un aroma particolare”. L’aroma di Milano. Una Milano che ovviamente oggi non c’è più. Eppure per Ponzoni i ricordi sono solo tali, non l’arma da taglio che sfregia il presente: “Oggi Milano ha tanti teatri che funzionano. Il Puccini è sempre esaurito, il Franco Parenti va benissimo. E ce ne sono altri, nuovi. In quest’epoca molto asettica è fantastico che la gente voglia ancora stare insieme a guardare attori in carne e ossa. E poi ci sono anche locali che rievocano lo spirito dei tempi passati, tipo Spirit de Milan. Ogni sera, lì, succede qualcosa. Si balla, si ascolta jazz, c’è il cabaret. Milano si è risvegliata”. Chi sembra aver dormito poco, nella vita, è proprio Cochi Ponzoni. Lo sguardo è gentile, ma attento. Le parole dolci ma precise. “La televisione ha invaso la comicità, però oggi c’è anche tanta stand-up comedy. Forse il livello del linguaggio, rispetto ai nostri tempi, si è un po’ abbassato. Noi volavamo alto, eravamo surreali, inventavamo parecchio e osavamo essere anche “difficili”, talvolta. Oggi è tutto un po’ una marmellata: temi quotidiani tanti, originalità poca. Però ci sono anche giovani molto interessanti come Valerio Lundini. O ex-giovani come i miei amici Aldo, Giovanni e Giacomo, Paolo Rossi e Antonio Albanese che viaggiano ancora su standard molto alti”.
La comicità, la censura, lo “scoppio”
“Io e Renato abbiamo fatto il primo cabaret 61 anni fa, con due chitarre su una pedana. Cantavamo canzoni e proponevamo sketch surreali”. Oggi. Invece? “Il meccanismo grosso modo è ancora quello. Tu, su un palco, e il pubblico davanti. Al Derby il pubblico lo avevamo quasi sui piedi, a dire il vero. Non facevamo giorni di riposo, ogni sera mandavamo a casa almeno un centinaio di persone perché non c’era posto. Era un locale alla moda, frequentato da Mina, i cantanti, i calciatori. Oggi il Derby è un centro culturale. Il locale è ancora lì, ma sta cadendo a pezzi. Ci sono questi ragazzi, molto volenterosi, che cercano di tenerlo vivo”. La comicità – e chi la fa, lo sa – è una cosa seria. Tappare la bocca a un comico è sempre stata una tentazione del potere. “Il clima politico influenza relativamente il nostro mestiere. A livello televisivo, invece, la politica si fa sentire. Chi calca il palcoscenico non ha questi problemi. Porto in giro uno spettacolo, accompagnato da alcuni jazzisti, in cui racconto la vita di Charlie Parker. Qui la politica stai sicuro che non entra. Se invece uno fa satira in tv, qualche problema potrebbe averlo. Come lo ha il giornalismo, basta vedere cosa è successo a Sigfrido Ranucci e “Report”. La comunicazione fatica, in questo momento. Ci sono interferenze. Anche noi, nel nostro piccolo, attorno al 1968, abbiamo avuto qualche problema. La censura ci fiatava sul collo. In tv ci dissero: “Ricordatevi che il telespettatore medio ha l’intelligenza di un bambino di 12 anni e non comprende il significato della parola “scoppio”. Giovanni Leone era primo ministro. Censura democristiana, quella del 1968: “Era una censura poco intelligente, la aggiravamo dicendo cose che loro non capivano. Ci arrivavano dopo, in ritardo. Marcello Marchesi ci definiva “primule rosse” perché facevamo passare dei messaggi quasi cifrati”. Forse le risate non hanno seppellito quel modo di intendere la politica e le relazioni, ma senza dubbio hanno fatto piccoli miracoli. “Ho lavorato con Sordi. Mi faceva vedere le scene prima di girarle e gli dissi di smetterla perché mi faceva ridere troppo e non sarei stato capace di rimanere serio al momento del ciak. Ugo Tognazzi e Walter Chiari li trovavo spassosi. Poi, anche nella vita privata, ho riso tantissimo con Jannacci, Toffolo, i miei amici/colleghi di sempre. E ovviamente con Renato”. Pozzetto. Che se lo chiami “Renato” devi essere giusto Cochi Ponzoni, altrimenti fai la figura di quello che sbandiera intimità dove invece c’è solo una conoscenza superficiale. Amici, testimoni di un’epoca artistica che ancora respira, anche in tempi di algoretica (sì, esiste, questo termine; mica ci inventiamo le parole come quegli scassinatori del senso che calcavano il palco del Derby). Lo sente ancora Renato Pozzetto? “Sì, ma non di frequente. Abitiamo lontani l’uno dall’altro. Io vivo ancora a Milano, una città che forse non ho mai davvero lasciato, anche se tra la fine degli anni ’70 e l’inizio dei 2000 ho avuto un lungo interregno romano. All’epoca abbandonai non tanto la città in sé, ma la Milano da bere. Non mi piaceva. Furono gli yuppies a farmi scappare”.