"Katia Buchicchio, luce della mia vita (light of my life)" scriverebbe Nabokov, "fuoco dei miei lombi (fire of my loins). Mio peccato, anima mia (My sin, my soul). Bu-chi-cchio: the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth". Ovvero, la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Ma nella lingua che adottò lo scrittore russo, probabilmente, "dental braces", non suonava bene come "teeth" e per questo Nabokov ci regalò una Lolita dalla dentatura perfetta, scevra di apparecchio. Eppure, in Katia Buchicchio, la bellissima diciottenne lucana che ha vinto il premio di Miss Italia c'è qualcosa di lolitesco, nonostante il cognome un po' sfortunato.

A Nabokov, piaceva vincere facile. Se la protagonista del tuo romanzo si chiama Dolores Haze, facile (si fa per dire) concepire uno dei più geniali incipit mai scritti nella storia della letteratura. Dolores, è un nome che si presta ad essere piegato in tutti i modi possibili, con la voluttà più sconveniente del secolo, ma pur sempre, difficile da ignorare. Lo-li-ta. Ma ci avesse provato con il cognome Buchicchio? "She was Bu, plain Bu, in the morning (mmm, non va bene). She was Katy in slacks (qui non male, dai). She was Bucchì at school..." no, ferma tutto. Meglio di no, anche perché uno scrittore della sensibilità come Nabokov avrebbe subito intuito di quanto, in un piccolo paesino della Lucania, in quel sud Italia che non progredisce, che si colloca al di fuori della storia, il nomignolo, il soprannome, sia uno stigma sociale, un marchio d'infelicità.

Eppure, la genetica non mente, e hai voglia a sfottere, compagno di scuola. Ad un certo punto, rosicherai. Ti è toccato di rosicare a vedere la tanto agognata compagna di banco che perseguitavi con la solita battutaccia, prima fidanzarsi con un altro. Pensarla posseduta da qualcuno che non sei tu, il tuo tormento. Poi, come se non bastasse, uno scherzo del destino, contro di te, vederla vincere Miss Italia. Una congiura dell'universo. Però c'ha l'apparecchio. E allora il Nabokov che è in te fa due più due: "Bu-chi-cchio. Ma con l'apparecchio?". E giù a sfottere, ancora e ancora, la magra consolazione domandarsi del rischio di... Ma fammi il piacere, tu, che rischio puoi correre? C'è chi reagisce così, malamente e senza poesia, e chi invece accoglie la verità con più serenità e malizia, evocando l’erotico e tenero ricordo di quei baci con la lingua, scambiati in segreto alle scuole medie con la fidanzatina, in cima al mistero della verginità ancora intatta. Prove di teatro quell'incastrarsi metallico tra i denti in gabbia, e un padre di famiglia in giacca e cravatta qualsiasi, a tavola con la figlia, dalla televisione apprende la notizia, la neo diciottenne Miss Italia con l’apparecchio, e sorride con denti perfetti mentre si morde il labbro, di nascosto. Come passa il tempo... ma va bene così. Sempre e comunque, si tratta di un chinare il capo, come la ginestra, di fronte alla colata lavica della bellezza e del desiderio.

Sembra che tutte le frecce della vita siano indirizzate verso la donna, anche quelle che partono dalla donna stessa e la bellezza che l'attraversa è un tiranno, il più crudele dei tiranni. Esercita il suo potere non tramite il terrore, ma con il desiderio. La bellezza non ha nulla di democratico. Ricordatevi di quando, qualche anno fa a Roma, bastava prendere la metropolitana fino a San Giovanni, salire le scale per risorgere in superficie, e dietro agli squallidi cantieri, fermi da più di un decennio, scorgere la Basilica Lateranense, sullo sfondo, ergersi maestosa, fuori dal tempo, sormontata dalle statue monumentali dell’Evangelista ed i dotti della chiesa. Altro che democrazia. E nonostante tutto, i cantieri che ingabbiano il sorriso di Roma ne amplificano l'antichità e la bellezza per contrasto, stimolando ancora di più l'immaginazione dello spettatore a figurarsela nell'antico e nel futuro splendore. Lo stesso può valere per l’apparecchio su di una bella donna. Ne amplifica la sensualità, ne mette in risalto la sua controversa voluttà di ragazzina, la sua presunta innocenza e il potere che il corpo di una donna in fiore esercita su quello di un uomo, innescando in lui pensieri e ragionamenti da tenere nascosti, discorsi, dibattiti, litigi bisbigliati, salivazioni, alterazioni del battito del cuore. Quando l’apparecchio per i denti, poi, è celato, come dietro ad un sipario, da carnose labbra languide, tese in un sorriso appeso a due alti zigomi, che dal basso proteggono due occhi felini, a che volete che pensi un uomo, schiavo o suddito dell’amore e dei suoi surrogati? A che volete che pensi un uomo, sospeso nell’incertezza che separa, vagamente in un limbo, lo schiavo dal suddito? Nabokov, questo, lo sapeva bene quando scrisse Lolita, ma noi, non possiamo nemmeno ventilare l'idea di poter capire, perché non siamo Nabokov, né Dio, e perché, nonostante tutto, proviamo vergogna per aver assaggiato un frutto proibito. Ma soprattutto, ce la ridiamo come adolescenti perché non è certo Nabokov ad aver inventato il nostro cognome.
