Nella mia città natale, quando ero giovane, c’era un negozietto vicino casa mia che affittava e vendeva videocassette. Anche quando le videocassette non le poteva usare quasi nessuno, perché i videoregistratori erano cari come il peccato e se li potevano ancora permettere in pochi. Non a caso il negozietto era vicino casa mia, in una quartiere di ricchi, dove la mia famiglia era capitata per caso, ospite della casa sfitta del prefetto di Macerata che il prefetto di Macerata aveva dato a disposizione del Comune per quelli che avevano perso la casa con il terremoto del 1972. Quel negozietto era un’attrazione anche per chi il videoregistratore non ce l’aveva, perché le videocassette erano esotiche, una schiccheria avrebbe detto Madame. Entravi e c’era una stanza con delle mensole alle pareti, e nient’altro, a parte un piccolo bancone dietro il quale stava il tizio che quel negozietto gestiva, un signore piuttosto basso e panciuto. In un angolo della stanza, dalla parte opposta alla porta di ingresso, c’era una tenda, che portava non si sa bene dove. Questo posto aveva un nome che faceva riferimento alla divinità romana Venere, perché, si pensava, Venere era stata culto in città quando ancora la città non era tale, il duomo sorgeva laddove un tempo c’era un tempio a lei dedicata. Di fatto si scoprirà poi, quando le videocassette saranno a disposizione di tutti, anche delle classi meno agiate, Blockbuster a portare una ventata di democrazia almeno apparente in quello, che il negozietto era più che altro una copertura per un giro di filmini piccanti che vedevano coinvolti parte di quella alta borghesia che poi si poteva permettere i videoregistratori dove vedere quei medesimi filmini. La differenza tra le immagini in movimento dei filmini e quelle statiche dei giornaletti, immagini quest’ultime nelle quali, per dirla col Mimì dei Massimo Volume di Fuoco fatuo, “manca il contatto tra le corna e la mano”, è una fotografia plastica della differenza di classe sociale, ma andiamo oltre. Del resto che l’erotismo fosse faccenda altolocata, raffinata, a suo modo, era chiaro da certi romanzi, di cui arrivati all’adolescenza si aveva accesso presso la biblioteca pubblica, penso All’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence, o alle Relazioni pericolose di Pierre Antoine Francois Choderlos de Laclos, un nome troppo complicato per essere proletario, dove toccava sempre essere spicci. Histoire d’O, con Corinne Clery, o Emmanuelle, con Sylvia Kristel, film che magari sarebbero più catalogabili come erotici, ma che comunque fecero molto scandalo, con quelle protagoniste francesi e altoborghesi.
Veniamo ai giorni nostri. E lasciamo da parte questo discorso e parliamo di provocazioni e di che tipo di effetto continuino ad avere, o abbiano finito per avere. Mi capita sotto gli occhi una foto di Mahmood, ieri, nel bel mezzo del mese del Pride, quando anche andando al Penny, discount della catena Gs a Milano, non esattamente Peck, si viene accolti da un tappeto in plastica dei colori dell’arcobaleno, medesimi colori che scivolano nel rullo alla cassa, sotto lo sguardo interrogativo di una clientela prevalentemente anziana che del Pride, ovviamente, non sa nulla. La foto, pubblicata nel suo profilo, immagino per lanciare il singolo, destinato a imperituro successo Ra Ta Ta Ta, o qualcosa del genere, ce lo mostra a torso nudo, con indosso una strana pelliccia, suppongo ecologica, gli addominali scolpiti in palestra in bella vista e evidenziati da oli vari, un paio di jeans retti da una cintura di cuoio con fibbia enorme, stile far west, un fazzoletto in testa, alla maniera in cui Gina Lollobrigida era solita raccogliere i capelli quando faceva la contadinella ingenua a fianco di Vittorio De Sica nella saga dei Pane Amore e Fantasia, e un paio di occhialoni neri a coprire gli occhi. Non sono esattamente la persona che più conosce la moda, quindi sorvolo sul senso estetico, passo quindi alla didascalia che accompagna la foto, didascalia che recita, in inglese perché Mahmood è artista internazionale “SPIT OR LUBE?”, così in maiuscolo. Spit or lube, col punto di domanda, starebbe per “sputo o lubrificante”, lasciando intendere per far cosa dovrebbero poi servire detti sputi o detti lubrificanti.
Ora, sono figlio di un diacono, vissuto in provincia, ma sono un uomo dei nostri giorni, e non ho bisogno di Google per capire una didascalia del genere, peraltro il tizio bassetto e panciuto che gestiva il negozietto di videocassette, in realtà produttore di filmini sotto mentite spoglie, ha passato gli ultimi anni della sua vita a fare il sacrestano del duomo, non fatemi star qui a tornare sulla querelle (non de Brest, toh, beccatevi pure la citazione colta, quella sì proletaria). Sputo o lubrificante. Mahmood caro, spiegaci, è stata un’idea tua? Te l’ha suggerita un social media manager? È frutto di uno studio di marketing? Si pensava, uso una terza persona generica, non sapendo esattamente quale sia la risposta corretta alla serie di domande appena posta, di andare a scandalizzare qualcuno, a fare l’occhiolino a qualcun altro, comunque a passare per provocatori? Sì, ecco, su questo penso di poter rispondere io per te. Sputo o lubrificante voleva passare per una provocazione, lasciar intendere, ammiccare. Il tutto nell’estate della hit tamarra e carnale di Tony Effe e Gaia, a stento fronteggiate dall’amore romantico di Tananai e Annalisa. Però, arrivo al punto, siamo sicuri, e stavolta la prima persona plurale è lì non tanto perché io mi senta parte della faccenda quanto piuttosto perché, nel momento in cui vai a dire a qualcuno che non è stato proprio al top è meglio usare cautele, non far cadere le cose dall’alto, mettercisi in mezzo quasi a voler smezzare responsabilità che ovviamente non si hanno, di nuovo una terza persona neutrale, siamo sicuri che fare una foto con addominali unti in primo piano e fazzoletto alla Gina Lollobrigida che porta per didascalia un esplicito riferimento a un rapporto sia in qualche modo una provocazione effettiva? Cioè, che non si tratti di un vezzo ultraborghese, uno spadino di plastica a cui per sicurezza è stata pure tolta la punta, buono come sottofondo durante una cena elegante, perché tanto ormai ci si è abituati a tutto, “signora mia, guarda cosa stanno facendo a quella giovane attrice francese in quel castello, povera cucciola”? Perché le provocazioni, da che mondo è mondo, e da che mondo dell’arte, toh, includiamo anche il pop, è il mondo dell’arte è faccenda seria, non robetta da pubblicitari che si esaltano pensando a Mad Man. Roba altoborghese, certo, come altoborghese è il voler costantemente superare i limiti, Pasolini e Arbasino ce li siamo visti e letti quando ancora le videocassette non erano diventate roba da allegato a Panorama, e la sensazione di vecchio, a meno che non si sia appassionati della categoria Granny, non è che abbia questa grande attrattiva su un pubblico generalmente giovane.
Sono uno che nel 2018, quando cioè ancora Elodie portava i capelli corti e rosa e il suo fondoschiena, quello criticato per la sua sovraesposizione da Gino Paoli, era ancora solo intuibile e in Italia andava di moda l’indie, ha fatto un TedX a Matera dal titolo Venere senza pelliccia, titolo in precedenza di un mio libro, uscito l’anno prima per Skirà, signora mia, nel quale parlavo di deses*ualizzazione femminile nella musica pop italiana, allestendo paragoni con quel che nel mentre succedeva nel resto del mondo, ho sempre difeso il diritto di esprimersi in arte anche col proprio corpo, di vestirsi o svestirsi come si desidera, invocando di abbattere gli stereotipi patriarcali e tossici a suon di deretani, figuriamoci se mi scandalizzo sapendo che Mamhood usa sia lo sputo che il lubrificante, saranno affari suoi. Sappia, però, che quello che lui o chi per lui, pensa come provocatorio, altro non è che l’ennesimo giochino borghese che ben presto verrà a noia, sostituito da altri giochini più nuovi. Roba naif di chi si sente trasgressivo, ma prova a spiegare la trasgressione da chi ne detiene i diritti d’autore. Passare dall’essere O o Emmanuelle all’essere la Corinne Clery che sbrocca per i mosquitos all’Isola dei Famosi è un attimo.