Sui social, in tv e al cinema è tennis mania, Jannik Sinner e Matteo Berrettini sono ovunque. Che siano diventati più affascinanti dei calciatori? Abbiamo fatto questa domanda a Malcom Pagani, produttore per Tenderstories al fianco di Moreno Zani, giornalista, scrittore ed ex vicedirettore di Vanity Fair, con cui abbiamo anche riflettuto sull’importanza dell’artigianalità e la cura delle cose, elementi distintivi di un cinema italiano del passato (e perso per sempre?). Pagani che sceglie parole complesse, dense di significati, per cercare di riassumere le ricche terre dove vivono i suoi pensieri e analizzare questo mondo complesso, ha condiviso con noi il suo amore per lo sport (soprattutto quello per il calcio), ci ha spiegato cosa pensa del successo del Piccolo America di Roma e sul film di Paolo Sorrentino in concorso al Festival di Cannes, Parthenope: “È anche una pellicola femminista, sull'emancipazione delle ragazze, sulla totale impermeabilità delle donne sia all’ideale del possesso altrui sia all’idea dell’eterodirezione, ed è un film sulla capacità e sulla forza della libertà che è più forte di tutto”. Una libertà urlata a squarciagola, intraducibile, che dovrebbe rigenerarsi e crescere come spiegava Bergson senza servirsi mai, come sottolinea Pagani, di manuali o istruzioni per l'uso. Altrimenti, che libertà è? Ecco la nostra intervista.
Al cinema abbiamo visto alcuni film incentrati sul tennis, penso a Match Point di Woody Allen e al più recente Challengers di Luca Guadagnino che ha contribuito all'ascesa della tennis mania fuori e dentro i social. Come spieghi questa influenza del tennis sul grande schermo?
I film che hanno lo sport come sfondo sono sempre o quasi sempre, compreso quello di Guadagnino, film in cui lo sport è solo un pretesto. Penso anche a L’uomo in più di Sorrentino, che teoricamente parla di illusioni perdute, di calciatori che non trovano una seconda strada, ma penso anche al tennis di Matchpoint di Allen, ecco credo ci sia sempre qualcos'altro. In più credo che lo sport sia difficile da portare al cinema.
Il ruolo del tennista, oggi, è cambiato nell'immaginario collettivo?
Prima, negli anni Sessanta, con Laver ad esempio, il tennis era uno sport per pochi, mentre ora in un certo senso è diventato uno sport per tutti, non c’è ragazzino oggi che non prenda in mano una racchetta o un cinquantenne che non vada a giocare a padel. È diventato qualcosa di più fruibile e di molto diverso da Lea Pericoli che sgambettava a Wimbledon o da Leconte che provava a fare poesia tra le righe del campo, e così via. È diventato qualcosa secondo me di meno bello da vedere. Io capisco che questa cosa sciovinista insopportabile di far vedere Sinner dalla mattina alla sera, come Sinner che sovrasta l'economia, che sovrasta le stragi, che sovrasta tutto, sia proprio la fotografia straziante del nostro provincialismo. Aggiungo però che probabilmente in me parla anche l'acrimonia di chi è ferito dal fatto che del tennis contemporaneo non gliene importi più niente. Io ho smesso di vederlo. Mi ricordo che il primo abbonamento a una Tv via cavo nella mia vita lo feci per seguire le semifinali di Connors in quel torneo in cui lui a 41 anni si prendeva delle pause lunghissime tra un punto e l'altro perché non ce la faceva più a correre, ecco devo dire che questo tennis di oggi invece, velocissimo, fatto di poca grazia e bombardieri mi affascina pochissimo. Poi certo lo sport in sé è meraviglioso, in cui solipsismo e psicologia si danno la destra e sono strettamente connaturati. Sul campo sei solo, completamente da solo, non so se ci sia un altro sport in cui la vittoria è così vicina alla sconfitta, pensi di vincere e basta una voce dagli spalti, un momento in cui ti passa un'altra cosa per la testa che, se viene meno la concentrazione guerresca, hai perso anche la partita. In più il tennis come altri sport non ti lascia lo spazio dell'adolescenza. Ecco, diciamo che quando penso al tennista penso comunque a una persona che vive almeno un terzo della sua vita a cercare di raggiungere una cosa che ad un certo punto svanirà con l'età e con l'arrivo di qualcuno simile a lui, che tira la pallina più forte, che corre di più, che ha meno anni sulle spalle... Quindi diciamo che c'è qualcosa di straziante nella logica del tennista, cioè il tennista è comunque qualcuno che ad un certo punto si ritroverà a 40 anni a reinventarsi. Trovo che siano delle vite faticosissime, del resto, come in quella vecchia canzone di Morandi, Tozzi e Ruggeri, poi alla fine "ce la fa uno su mille", quindi penso anche a tutti questi sportivi che veleggiano tra il professionismo, serie B1, eccetera... È interessante quella parte lì, cioè la parte di tutti quelli che non vedono mai nella loro vita e che non vedranno mai i primi 100 posti della classifica del mondo. Questa cosa qui mi sembra che sia prosodicamente molto angosciosa.
Perché?
Beh, se non ce la fai magari hai "perso" quindici anni della tua vita, mentre lo scrittore si può rivelare a cinquant'anni, il regista pure, tutto sommato diciamo altre carriere che hanno riconoscibilità, l'ambizione, il desiderio di conquistare un proscenio pubblico hanno una lunghezza e una possibilità maggiore. Il tennista o ce la fa a vent'anni o non ce la fa più. E quel tempo non glielo restituisce nessuno. Tornando alla domanda di partenza, a me sembra che il tennista di oggi sia molto cambiato. Poi bisogna anche parlare di quest’idea di nepotismo legato ai piccoli virgulti che un giorno sapranno imbracciare la racchetta talmente bene, da poter essere così forti. Mi sembra che in questa storia si assomiglino tutti. Il padre di Monica Seles, il padre di Andre Agassi. Alla fine tutti hanno questa sorta di genitore opprimente davanti per cui o diventa lo specchio con cui confrontarsi per abbatterlo, per divorarlo come Crono faceva con i suoi figli - in questo caso i figli divorano i padri - oppure diventa il tuo Barbablù e tu sei prigioniero per la vita dell'ambizione di un altro. Cioè questo è interessante e diciamo che poi alla fine c'è proprio una traslazione dell'ambizione. Perché fai questa cosa, hai questo obiettivo? È una cosa che vuoi tu o un altro? Una persona che magari vede in te qualcosa che non ha avuto lui o vede in te anche più prosaicamente la possibilità di ascendere socialmente, di diventare ricco. Non lo so, mi sembra tutto un groviglio di sentimenti tremendi.
Spiegati meglio.
Noi ne vediamo appunto solo la patina, vediamo le prime pagine con Sinner, contro cui ovviamente non ho nulla anzi, mi sembra un ragazzo molto simpatico e semplice, però voglio dire che è la ridicola prosopopea per cui scende in campo l'Italia. Cioè, è vero che io sono disposto, diciamo, a concedere al calcio tutto quello che non concedo al tennis, perché poi siamo ingiusti e in un certo senso anche molto contraddittori. Però alla fine quello che mi interessa non sono mai i tie-break, i risultati, le partite. Mi interessano le biografie che ci sono dietro.
Cioè?
Vista l'assoluta simpatia, il sense of humor e la delizia umana di Adriano Panatta, forse non tutti i tennisti sono destinati a soffrire, però io sono sicuro che tra il Panatta che girava a Roma con Roberto D'Agostino e Loredana Bertè e il tennista di oggi passi tutta la distanza che c'è tra un tempo che non tornerà più, primigeneo, vergine, pionieristico, e la fame di oggi.
Fammi un esempio.
Guarda quello che è successo a Berrettini, se hai un anno che ti gira male incominciano a dirti cos'è che hai sbagliato, a domandarti se hai bevuto mezzo birra in più, hai dato un bacio di troppo, ti sei distratto, come se l'idea dell'ascesa sportiva possa passare solo attraverso l'Accademia Militare, ma non è vero niente. Cioè Michel Platini arrivò a Torino con la Juventus per sei mesi girò in ciabatte, tutti lo aspettarono con grande calma perché nel mondo del calcio era un genio e dopo essersi ambientato riuscì a fare bene. C'è questa idea qui per cui il rigore morale va di pari passo necessariamente con i risultati che mi sembra un'idea un po' concentrazionaria che non mi somiglia e non apprezzo. Per quello mi piacevano altri tipi di tennisti, mi piaceva Yannick Noah e quelli che avevano un guizzo che sembrava poter far dire "questo non è che sa solo fare il rovescio", ma che vive, pensa, si gode le cose, sente una canzone, va al cinema, legge un libro, gioca alla playstation, non voglio minimamente dire che l'ozio debba avere una direzione culturale, tuttavia credo sia bello anche spaziare.
I tennisti oggi hanno sostituito i calciatori? Sono più "attraenti" anche per gli sponsor? Penso a Sinner divenuto brand ambassador di Gucci.
Per me è sempre irresistibile l'idea che tu possa unire dieci ragazzini in una piazza, buttare due felpe per terra, tirare fuori un pallone. Farlo in spiaggia o in una piazza, dovunque tu sia e lì organizzare una partita. Per quello che riguarda il discorso legato all'alta moda, alle collaborazioni, io sono la persona meno adatta con cui parlarne, non ne so nulla. Io andavo a vedere l'internazionale di tennis da ragazzino, non avevamo i telefonini. Anche allora c’era la stessa identica cosa di oggi ma non esisteva il mezzo. Quindi è il mezzo a creare l’hype o è l’hype a servirsi del mezzo? Cioè secondo me è una domanda banale, ovvia, quello che ti pare, però è una domanda essenziale perché le stesse cose io le vedevo senza l'ossessione di TikTok, di Instagram, le vedevo esattamente identiche 35-40 anni fa, solo che non c'era quella roba lì. Noi bambini amavamo tantissimo giocare con Commodore VIC-20, Commodore 64, le prime console che non sono di certo le Nintendo Switch o PlayStation 5 di oggi (ride, ndr), però avevamo la stessa identica pulsione, la stessa identica attitudine, ma non avevam un mezzo su cui esplicarla. A quello non pensavamo proprio. Mi ricordo la prima volta che è arrivato il cordless a casa mia e si poteva parlare da una stanza all'altra con un telefono, ero convinto che fossero scesi gli alieni sulla Terra (ride, ndr). È una questione, secondo me, anche di spirito del tempo, cioè di modernità. Probabilmente tra cinquant'anni pagheremo come paghiamo oggi per andare a Sidney, un biglietto aereo costoso per andare a farci un giro sulla luna e forse il tennis sarà diventato virtuale. Non so, mi sembra difficile valutare questa cosa. Devo dire la verità se la tua domanda è rivolta anche a dire che è una cosa che fa più "premio", diciamo, mostrarsi interessati al tennis in Italia, ecco questo può essere. Ho visto, per esempio, che Domenico Procacci ha fatto un bellissimo giornale, riportando in vita il tennis illustrato, una rivista meravigliosa. Ho letto anche dei pezzi molto interessanti di Sandro Veronesi sul tennis, quindi magari letterariamente tutto quello che non è riuscito a fare il calcio al cinema può darsi che il tennis abbia un altro tipo di valenza, però non so dirti…. Se le case di moda premiano i tennisti? Non ne sono sicuro perché d'altra parte il calcio ha ricoperto d'oro i suoi testimonial da Messi a Cristiano Ronaldo per decenni. Parliamo anche di un territorio completamente inesplorato, cioè il calcio fino al 1979-1980 non conosceva gli sponsor sulle maglie e i tennisti dovevano stare attenti a portarsi dietro la maglietta perché dovevano lavarsela a casa. Voglio dire, oggi tutto questo sembra preistorico, impensabile. Non lo so, io penso che la pubblicità sappia guardare benissimo dove c'è un ritorno di pubblico. Certo, se vai a fare i mondiali in Qatar avrai gli spalti vuoti, ma portalo in Argentina e vedrai che lascerà fuori migliaia di persone. L'altro giorno ho fatto un tentativo, volevo sapere quanto costassero i biglietti per Wimbledon. I biglietti per pacchetto viaggio dall'Italia per quarti di semifinale e finale di Wimbledon si aggiravano sui 10-12 mila euro. Qual è il tifoso di calcio che può permettersi queste cifre per vedere 4 ore di calcio? Ecco, forse il tennis è uno sport meno popolare.
Passando ora al cinema, al Festival di Cannes c'è Parthenope di Paolo Sorrentino, che è l'unico film italiano in concorso per la Palma d'Oro. In conferenza stampa il regista ha detto che in Parthenope "c'è un mistero e la celebrazione della sua stessa vita". Cosa ti aspetti di trovare in questo suo film?
Io il film l'ho visto, quindi posso dire che è un film che, come tanti altri di Paolo, riflette su questo passaggio velocissimo di cui non siamo sempre pronti a raccogliere il messaggio che è poi la giovinezza, cioè la giovinezza come terreno di sperimentazione. È un film su quanto sia complicato essere felici, su quanto questo presupponga anche un certo egoismo di fondo. Parthenope è un film molto bello, per quello che può valere la mia opinione, con una ragazza folgorante e indimenticabile, Celeste Dalla Porta. Lei è abbastanza sorprendente perché non è solo una figurina, ma è un'attrice, cioè una ragazza che tiene molto bene una parte complicata e poi credo che sia un film anche sulla libertà della donna, sull'emancipazione delle ragazze, sulla totale impermeabilità delle donne sia dall’ideale del possesso altrui sia dall’idea dell’eterodirezione, ed è un film sulla capacità e sulla forza della libertà che è più forte di tutto, di qualunque schema, di qualunque preconcetto, di qualunque pregiudizio, di qualunque tabù. Il problema della libertà è che o questa è totale, assoluta o non è libertà. Mi sembra che da questo punto di vista il film sia un inno alla libertà che se ne sbatte dei giudizi. Parthenope è un film molto libero, molto coraggioso, anche molto lineare, perché è chiaro che si prendono tantissime licenze poetiche in questo viaggio di questa ragazza attraverso l'epoca e la sua maturità, però alla fine Parthenope racconta quello che solidamente, un po' stupidamente, un po' banalmente, imputano a Sorrentino, ossia: "Ah, non c'è la trama”. Ecco qui la trama c'è, con degli incastri spazio-temporali di notevole bellezza e di grande coraggio. Mi sembra il film di un regista che non deve dimostrare più niente a nessuno, che non deve farsi dettare nulla dagli altri, di un autore che, esattamente come la protagonista della storia, non si fa spiegare come dovrebbe condurre la propria esistenza.
Perché dicono che i film di Sorrentino non hanno trama?
È una critica che possono fare solo gli stupidi. Puoi andare da Godard a dirgli che non c'è la trama nei suoi lavori, da Kurosawa sostenendo che Rashomon sia confuso, puoi rivolgerti ai grandi registi contemporanei come Christopher Nolan e affermare che Inception sia confuso. Eppure il regista non deve alfabetizzare lo spettatore, deve fare ciò che vuole. È come se andassi da Schifano a dirgli "scusami io quest’opera non la capisco" o da Franco Angeli a dirgli "scusa perché fai il mezzo dollaro americano e non le rondini"? Insomma un artista fa quello che gli pare.
Alla luce di questo discorso, potremmo definire Parthenope un film femminista?
Molto anche se dubito che possa piacere alla categoria perché Paolo Sorrentino non ha nessuna voglia di schematizzare le cose. Però certo, se il femminismo di oggi non fosse a volte così ideologico e se non facesse di questioni importanti e fondamentali il più sciatto dei marketing certamente lo si potrebbe definire un film femminista. Anche se devo ancora comprendere bene il significato della parola “femminismo”, oggi fatico a definirlo. Mettiamola così, se il femminismo ha a cuore la libertà e l'emancipazione della donna, allora sicuramente Parthenope è un film femminista.
Sempre Parthenope è stato prodotto anche da Yves Saint Laurent come anche il film di Cronenberg e Audiard in concorso a Cannes 2024. Come mai questo interessamento della maison di alta moda nei confronti del cinema?
Io produco grazie a Moreno Zani con una società che si chiama Tenderstories, mi sembra perfetto che Yves Saint Laurent metta dei soldi su film, come Prada fa un bellissimo lavoro sul cinema a Milano. Perché no? D'altra parte, questa sì è la prosecuzione ideale di decenni in cui l'idea dell'eleganza era associata all'idea della sala buia, delle luci che si accendono, delle figure che appaiono sullo schermo. In un film di quest'anno, girato da Saverio Costanzo, Finalmente l’alba, c’è il racconto di che cosa è stato il cinema per chi usciva dal Dopoguerra. Era profondamente legato all'idea del glamour, dell'eleganza di Hollywood e dei divi inarrivabili. In questo mi sembra che ci sia una filologia totale tra la casa di moda che investe sul cinema per un ritorno d’immagine. Tra l'altro devo dire che Vaccarello ha scelto tre film meravigliosi per iniziare, quindi da questo punto di vista dimostra di avere buon gusto.
Proprio Vaccarello ha detto che attraverso la produzione cinematografica "Il nome di Saint Laurent sarà ancorato nel tempo". Ecco, secondo te oggi è ancora questa la forza del cinema, di "rimanere nel tempo"?
Questo mi sembra un po' deliziosamente ingenuo da parte di Vaccarello, perché alla fine i nomi dei produttori non se li ricorda mai nessuno però l'idea dell'eternità, l'idea del passaggio, sì probabilmente è così. Io ho una figlia che compie 18 anni a settembre e abbiamo rivisto insieme C'eravamo Tanti Amati, un film del 1974, quindi di cinquant'anni fa, un film molto, molto attuale. Perché quando tu parli di sogni, di rimpianti, che è un po' il grande tema di Parthenope, ma anche di altri film di Sorrentino e di tanti altri grandi film che hanno fatto la storia del cinema, l'idea dell'amore, del passaggio generazionale, dell'incontro mancato, dell'occasione persa o della trivialità inutile di cui poi porti il peso, il senso di colpa per anni, tutto ciò resta eterno perché le immagini lo veicolano. Quello che dice Vaccarello è molto vero rispetto a una campagna di moda ma io potrei dirti anche rispetto alle serie tv di cui sono famelico fruitore perché richiedono un'attenzione diversa che è l'attenzione del momento, cioè adesso sto rivedendo dopo dieci anni House Of Cards, scritta bene, recitata meglio, proprio un capolavoro, ma tantissime cose me le ero dimenticate, così come con Breaking Bad, o con altre serie che ho amato tantissimo, perché è un tipo di fruizione diversa, il film rimane lì. Certo, le cose rispetto a un trentennio fa sono cambiate, è diventato tutto più veloce. Ti dico, sembra una cosa appunto sciatta e buttata lì, però la velocità di pensiero che hanno i quindicenni di oggi sovrasta nettamente quella che avevamo noi.
A Roma c'è un film che è stato girato in pellicola che si chiama Non credo in niente di Alessandro Marzullo che sta facendo il giro delle sale della Capitale piene zeppe di giovanissimi. È segno che le nuove generazioni stanno tornando al cinema?
Mi dispiace tantissimo ma non l'ho visto, anzi ti ringrazio, andrò sicuramente a vederlo. Comunque in generale non saprei. Parlavo giusto l'altro giorno con un amico attore che ha appena debuttato alla regia di quale sia la pietra filosofale capace di trasformare un film in oro o che invece lo fa crollare miseramente. Ebbene, io non lo so. Sono figlio di un produttore che ha fatto tantissimi film molto belli di un cinema che oggi non esiste più. Titoli che andavano ai festival, prendevano i premi, vincevano. In generale c'era tutta un'idea sartoriale del percorso che ogni singolo film avrebbe dovuto fare in sala. Mio padre telefonava ai cinema di Biella e di Cuneo o di Caltanissetta la sera stessa dopo la proiezione per sapere quanto avesse fatto il film, oppure si piazzava in macchina fuori da sale cinematografiche di Roma, molte delle quali oggi non esistono più, a vedere quanta gente uscisse, per chiedere all'esercente come fosse andata stasera. Queste cose me le ricordo e mi ricordo grandissimi distributori italiani molto bravi come Luigi Musini, Roberto Cicutto con Mikado, Andrea Occhipinti con Luckyred, Vieri Razzini e Cesare Petrillo con Teodora Film, le piccole distribuzioni che giustamente non potevano sprecare denaro (piccole e poi diventate grandi). Tu avevi un film, lo seguivi e veramente lo curavi. Cercavi di capire se un certo cinema in una determinata zona potesse dare una risposta positiva a quel tipo di film. Oggi è diventato un "prendi e butti al cinema", quindi correrò a vedere il film di Marzullo.
Perché ha un film ha successo e un altro no? C'è sempre una spiegazione dietro?
Ci sono delle cose che funzionano molto bene, penso ovviamente allo stravisto film della Cortellesi, ma anche al film di Riccardo Milani, che ha fatto 7 milioni di euro, che è un mezzo-trionfo, diciamo, oppure La Stranezza di Andò, È stata la mano di Dio, però ci sono delle cose che funzionano molto bene e per alcuni film sai perché, per altri non ne hai proprio idea. Però io penso che nessuno, neanche il bravissimo produttore che ha prodotto C'è ancora domani per Wildside, sa per quale ragione la Cortellesi abbia fatto 40 milioni di euro. Io penso che quello non lo sappia nessuno. Così come nessuno poteva immaginare che dopo i primi due weekend di Nuovo Cinema Paradiso, di Tornatore, Franco Cristaldi, che aveva ritirato il film, consigliò a Tornatore di copiare vari minuti del film e fu il trionfo che fu. È veramente impronosticabile. Però certo che puoi lavorare sul lancio e sulla cura di un film che è un progetto sempre complicato, prima di essere registrato ci vogliono due anni, e poi quando lo giri non sai mai come andrà. Da questo punto di vista, non lo so, mi auguro che ci sia una rinascita del cinema. Questo per dire che comunque ci sono delle realtà che chiamano tanta gente in sala.
Qualche nome?
Penso al Cinema Mexico a Milano che proiettò per un anno intero tutti i giovedì, The Blues Brothers facendo incassi incredibili, o penso al Troisi di Roma. Penso per esempio al lavoro meraviglioso che fa Ermanno Nastri, l'ex direttore di Sala del Sacro di Roma, all'Eden. Alla fine noi in che cosa abbiamo eccelso in questi decenni? Anche al cinema, penso ai nostri grandi artigiani, noi sappiamo curare le piccole cose con grande amore e grande cura. Mi pare che il Troisi faccia un lavoro artigianale, l'Eden fa un lavoro artigianale, lo stesso Nanni Moretti ha fatto per anni un lavoro artigianale resistendo da indipendente ai costi delle pellicole, ai costi del nolleggio. Insomma, bisogna proprio lavorarci, bisogna impegnarsi. Non basta un pacco di popcorn per portare qualcuno al cinema, anche perché i cinema di Roma sono per lo più in zone in cui non c'è parcheggio, è complicato mollare la macchina, la città è caotica e quindi di fatto per andare al cinema serve un po' di fideismo. Se quel fideismo non è accompagnato da una carezza di chi sovrintende alla proiezione, è più difficile avere voglia di andarci. Il lavoro che fa Valerio Carocci al Troisi è incredibilmente buono. Ho letto che gli hanno rotto le scatole perché aveva chiesto finanziamenti, ma io mi chiedo come puoi non voler finanziare una realtà come il Troisi che per due anni ha vinto il Biglietto d'oro (avendo registrato il maggior numero di spettatori)? Forse significa che sanno fare bene le cose. Non ho nessun tipo di vantaggio nel dirti questa cosa qui. Però voglio dire che la stessa roba la fa il circuito cinema. Ci sono delle realtà che funzionano bene perché non hanno perso la loro estrazione originaria, che era quella del grande artigianato. Ed è in quella direzione che devi andare. In generale, faccio un altro esempio, sento dire da trent'anni che i giornali sono morti. Non lo so, forse il contenitore è morto, ma le idee proseguono, le cose fatte bene sopravvivono. Però un po' d'amore per le cose.