Comincia tutto in cielo. Anzi, comincia tutto con una caduta. In Caracas, il terzo film da regista di Marco D’Amore, i personaggi sono costretti a terra, tra le vie sporche di una Napoli indecifrabile, nonostante la loro voglia di partire o di trovare la luce. L’umanità è ormai caduta, come il primo angelo. Caracas parla della memoria, dell’accettazione di un passato nero da non dimenticare. Un passato che deve rimanere presente, anche a costo di congelarlo in una fotografia. Toni Servillo è Giordano Fonte, uno scrittore originario di Napoli ma ormai da tempo emigrato. Decide di tornare nel suo quartiere, dove i suoi occhi hanno cominciato a immaginare le sue storie. È stanco e per questo ha deciso di non scrivere più. Poco dopo, incontra (o forse riscopre) Caracas (Marco D’Amore), un fascista che ha deciso di convertirsi all’Islam. Caracas è innamorato di Yasmina (Lina Camélia Lumbroso), una ragazza tossicodipendente. Sono soli, l’uno per l’altra. Nessuno è lì per salvarli. Lui, comunque, ripone le sue speranze in Allah, mentre lei cede le proprie alla droga. Giordano li accompagna curioso della loro esistenza, così diversa dalla sua. “Non hai più niente da dire”, gli dice Caracas: lo scrittore lo prende in parola. Comincia così la sua indagine sulla possibilità di redenzione e di cambiamento. Sempre mantenendosi, o almeno così crede, a una certa distanza, per paura di rimanere coinvolto. Scoprirà anche lui di non essere al sicuro. Sullo sfondo (ma forse in primo piano), Napoli e i suoi paradossi: a un metro di distanza ci sono uomini addormentati dall’eroina, bambini allevati dalla madre-strada e Dio, con i suoi vari nomi. È una ricerca, quella di Giordano Fonte, che è destinata a non risolversi. Al contrario, si annoda ancora di più su se stessa. Chi sta guardando chi? È davvero Caracas colui che vede quell’uomo morire accoltellato allo stomaco durante una ronda dei fasci? È lui che scatta le foto che lo scrittore ritrova appese nei corridoi dell’Hotel? Ogni punto d’osservazione divora quello precedente, rivelandone la parzialità.
Caracas parla dello schifo che c’è per le strade di Napoli, del fanatismo di chi è rimasto solo e dell’amore destinato al fallimento. Parla anche di quello che va oltre tutto questo: di un momento irripetibile, durante l’inverno, vissuto su una spiaggia di Napoli appoggiati a una barca, per cui vale ancora la pena commuoversi. E vale la pena anche ricordare ciò che è stato. Forse per questo Giordano si tiene stretta la sua valigetta piena di appunti: “Non mi ricordo tutto quello che ho scritto”, confessa. Caracas è anche un film che sembra accennare ai grandi del passato: la croce nazista sul petto come in American History X e l’Hotel labirinto in cui il presente si mischia con il passato come in Shining. Ma va oltre le citazioni (ammesso che queste davvero lo siano e non sia un nostro difetto prospettico vedercele): si spinge fino ai limiti di quella città, che è in realtà l’immagine di tutto il mondo. Senza assolvere né condannare, Marco D’Amore si aggira per le strade di Napoli in cerca della vita. Di persone, che sono storie che camminano. E resta quel nome, Caracas, che viene da lontano. Segno della volontà di fuggire e ugualmente consapevole della forza che trattiene. Marco D’Amore non è più l’immortale e nemmeno il mafioso di Gomorra. O, almeno, non è più solo quello. Ora è un autore, e come ogni autore cerca il suo modo di dire quello che deve. Mantenendo il suo punto “fermo”: una Napoli in continuo movimento.