Un film enorme. La colonna sonora di Hans Zimmer, le scene di battaglia, le ambientazioni: in Dune: Parte Due è tutto colossale. E funziona. Denis Villeneuve ha davvero esagerato, ma con cognizione di causa. Timothée Chalamet si trasforma, quasi senza volerlo, nel liberatore della profezia: il Kwisatz Haderack (o Lisan al-Gaib). Zendaya fa Zendaya, e quindi non le si può dire niente. Ma durante la visione di tutto il film c’è la sensazione di stare assistendo a un’opera che sfiora la mitologia. C’è chi, ovviamente, ha già fatto paragoni con un'altra saga leggendaria, quella di Star Wars (che forse, in realtà, è essa stessa debitrice dell’universo creato dai romanzi di Frank Herbert), eppure il secondo Dune regge il confronto. Anzi, per certi aspetti è addirittura superiore. Il film comincia dove ci aveva lasciato nel primo capitolo: Paul Atreides è fuggito tra i Fremen, il popolo nativo di Arrakis, il pianeta deserto. È fuggito dal nord (guarda caso), l’unica zona vivibile, per nascondersi al sud, dove deve reclutare il suo esercito. Dove abita quel popolo che per secoli ha atteso il suo messia, il Lisan al-Gaib. La metamorfosi di Paul in profeta e condottiero è lunga e lascia perplessi gli eretici come Chani (Zendaya), convinti che a portarli verso il Paradiso Verde debba essere uno di loro. Ed è dunque il tentativo di mimetizzarsi in terra straniera, quello del protagonista, che gli permette di trovare un’armata abbastanza potente da distruggere il regno degli Harkonnen e l’Impero. Paul è lacerato dal dubbio: davvero lui è il Lisan al-Gaib? Davvero lui, che di quel popolo neanche condivide il sangue, può farsi carico della sua liberazione? Sua madre, la Bene Gesserit (Rebecca Ferguson), si occupa della radicalizzazione degli incerti. Semina segni, profezie, convinzioni necessarie a un popolo per convincersi che quella che stanno combattendo è una guerra santa. Dall’altra parte, la casa del barone Harkonnen e l’Impero hanno scelto il loro campione, il difensore del loro dominio: è Feyd-Rautha (Austin Butler), il nipote del Barone. Meno complesso rispetto alla sua nemesi, Rautha è lo psicotico guerriero che dovrà lottare per guadagnarsi la mano della principessa Irulan (Florence Pugh) e, di conseguenza, il trono dell’universo. L’imperatore, interpretato da Christopher Walken, è l’esempio del vecchio establishment che può contare esclusivamente sull’ombra del proprio potere, ormai privo di sostanza. Il popolo che ha trovato il salvatore, l’opportunismo di chi sa che il trono è a un passo e la voglia dell’antico dominatore di non farsi da parte: la guerra è l’unica strada.
Senza dubbio, rispetto al romanzo di Herbert, alcuni personaggi perdono di profondità: Stilgar (Javier Bardem), il leader dei Fremen, è un fondamentalista un po’ eccessivo, a tratti comico, caratteristica che traspare meno nel libro; Feyd-Rautha non sembra avere un ingegno che va oltre la strategia militare; Raban (Dave Bautista), poi, è fin troppo incapace. Ma tutte queste incertezze, in verità, si riempiono con la grandezza dell’opera. Poco importa, quindi, se ognuno di loro perde un po’ di se stesso, trasformandosi in una funzione del quadro generale. Poco importa, sì, perché Denis Villeneuve è riuscito in quello che, forse, era il suo obiettivo: la creazione di un’epica del futuro. Alla luce di Dune: Parte Due è più chiara anche la lentezza del primo capitolo, dato che il regista non poteva giocarsi fin da subito tutte le sue carte (e i soldi), consapevole che la partita si sarebbe decisa su più film. Perché di Dune ci sarà anche un terzo capitolo. Sarà difficile fare meglio, ma i presupposti ci sono tutti. Il condottiero del destino di un popolo radicalizzato da un culto straniero, la guerra di civiltà, il deserto e la spezia, fonte di potere e di energia. Frank Herbert voleva parlare di noi, dell’invasione barbarica compiuta, paradossalmente, dalla parte “morale” del mondo. La fede dell’oppresso, spinta al limite, fino all’esplosione, lancerà nello spazio gli straccioni del sud alla ricerca di libertà. Un quadro colossale in cui gli eroi si smentiscono e si fanno, cinicamente, condottieri. Niente affatto buoni, ma solo più capaci di interpretare la fame della gente. Una storia come questa non poteva andare per il sottile, giocare sul minimalismo, ma doveva rendere in ogni paesaggio, in ogni inquadratura, in ogni palazzo creato con Cgi la grandiosa guerra santa che stava per scoppiare. E non vediamo l’ora di vedere come proseguirà.