Aprire per la più imponente popstar della propria epoca: occasione d’oro o vetrina per disinteressati? Qualsiasi band o artista abbia aperto un concerto di Madonna o U2, giusto per fare nomi da boomer, se lo è chiesto. Se lo saranno chiesti anche i Paramore, che hanno introdotto Taylor Swift ai due bagni di folla italiani di qualche giorno fa a San Siro. Questione facilmente, risolvibile, a dire il vero, nel senso che, esponendoti a un pubblico gigantesco, te la fai anche passare quella sensazione di inevitabile irritazione che scaturisce dal notare che tre quarti di quell’oceano di cuori palpitanti non vedono l’ora che tu ti levi dalle palle, insieme al tuo armamentario di melodie ed effetti, per lasciare il palco alla divina Taylor. Per raggiungerla e “abbracciarla” hanno acceso un mutuo, sai com’è... Sono cose che capitano, “sensazioni” che capitano, insomma. Ma mica a tutti. È capitato ai Paramore, appunto, dal Tennessee e non, come sentenziava l’inviato del Tg1, da qualche provincia italiana. Ebbene sì, vent’anni fa circa Hayley Williams diventava la leader di una band americana che, complice l’etichetta emo – etichetta che nei primi anni Duemila, giustamente, condannava ad almeno un paio di pernacchie chiunque si avventurasse su quegli assurdi lidi – è riuscita a navigare a mezz’aria tra il puro mainstream e un sempre più elusivo circuito alternative.
Però oggi, con mezza dozzina di album in studio all’attivo, i Paramore, un power trio energico e vitaminico, garantiscono un’iniezione di rock tirato che difficilmente scontenta qualcuno. Sebbene, altrettanto difficilmente, crei cieco e febbrile invasamento. Merito soprattutto di lei, Hayley Williams, frontwoman coi fiocchi che a quest’ultimo giro si è ispirata alla moda di Jane Asher e Mary Quant per rendere un po’ più retro e meno yankee il suo look “punk-ish”. La moda come atto anche polemico (Williams tende a premiare le stiliste) a corredo di un’estetica stile I don’t give a fu*k scaltra e ben congegnata. Fervente sostenitrice del diritto all’aborto e del mondo LGBTQ+, Williams, sul palco, sputa come un lama perché – come ha confessato a The Cut – “sul palco non ci sono leggi e quindi sputo su tutto”. Atteggiamento molto punk inglese del ’77 meets primo hardcore americano. Per cui, in un mondo ormai quasi ignaro dell’esistenza di un underground, un atteggiamento abbastanza “impressionante”. “O mio Dio, sputa! Ti rendi conto?”. Ehm, proprio così. Sputa.
A San Paolo, in Brasile, lo scorso anno, prima ha copiosamente sputato, poi è scivolata nella sua stessa saliva appena versata. E i fan? Neanche una piega. Anzi. Perché Williams è bravissima a giocarsi la parte della ragazzaccia dal viso adorabile, e per questa semplice ragione non le puoi dire nulla. Cosa vorresti mai dire alla donna che si è presentata – gambe da urlo e sorriso al gusto marshmallows – da Jimmy Fallon? Cosa le vorresti mai contestare? Nulla, anche perché traghettare un gruppo dalle tinte emo (urgh) in una dimensione fresca e ben più digeribile è un merito (grande) che non va affatto sottaciuto. Cosa si vorrebbe mai contestare a una donna che ha già vissuto due vite? E che forse, anche sputazzando a destra e sinistra, si è curata – “su e giù dal palco” – traumi profondi e dolorosi? In “Petals for armor”, album solista del 2020, Hayley ci spiega tutto o quasi. Le difficoltà famigliari, la depressione, la rabbia “mal collocata e mal direzionata”. Spiega sé stessa, che forse è tutto ciò che è sufficiente sapere sui Paramore, con buona pace dei fan del gruppo, che accoglieranno questa nostra reductio ad unum come un violento attentato nei confronti della loro band preferita. Amen. Che poi lo sapete anche voi, dai, che Hayley Williams è i Paramore. A San Siro qualcuno se ne sarà accorto? Noi diciamo di sì.