C’è ancora domani è un successo italiano? È la polemica dei giorni scorsi. Il ministero della cultura ai tempi di Franceschini, nel 2022, “bocciò” l’esordio di Paola Cortellesi alla regia definendo l’opera “di scarso valore”. Ovvero: fondi zero. Ora il film dell’attrice è diventato uno dei simboli delle proteste di questi giorni – a Roma una ragazza sfilava durante la manifestazione contro la violenza sulle donne con un poster del film – e l’occasione per unire maggioranza e opposizione nella lotta al femminicidio e alla violenza domestica (Giorgia Meloni, non a caso, ha elogiato il film). È anche il solo titolo in grado di competere con uno dei film più attesi dell’anno, Napoleon. Per dire: sabato 25 novembre ha guadagnato al Box Office 1.046.568 euro, secondo solo al colossal di Ridley Scott, 1.065.580 euro. E questo a tre settimane dall’uscita. Andiamo avanti.
C’è ancora domani è merito di Paola Cortellesi, che a differenza della media italiana (e dell’italiano medio) si comporta da vera intellettuale, lasciando parlare l’opera. Non si spreca in red carpet fatti di inutili trionfalismi ed evita la faccia accorata e dolente di chi sa che quello che ha fatto non basta a rendere il pathos che cova nell’artista. Cioè che sa che l’opera non è all’altezza del messaggio che si vuole mandare. Al contrario, Paola Cortellesi sembra in pace con se stessa. Sa che questo successo è sufficiente non solo per promuovere il suo primo tentativo dietro la camera, ma soprattutto per contribuire a una discussione quantomai attuale, soprattutto dopo la vicenda di Giulia Cecchettin. L’opera giusta al momento giusto.
A differenza della media italiana perché, mediamente, gli altri, gli intellettuali, si sprecano con vanitose moine a favore di telecamera. Primo esempio, Roberto Saviano. Un uomo con una carriera alle spalle, un commentatore politico, un opinionista, uno scrittore con una biblioteca personale, dice, di tredicimila libri circa. Insomma, un cervello che non avrebbe bisogno di presentazioni, se non fosse che l’involucro, Roberto, sembra non fare altro che presentarsi. Paola Cortelessi, invece, è un po’ come la sua campagna promozionale: scanzonata, soddisfatta del lavoro fatto, umile e divertente.
Si può essere intellettuali in molti modi, anche nei modi sbagliati. Stefano Massini in tv, soprattutto a Piazzapulita, è l’alternativa seriosa a Paola Cortellesi. Moralista, lento e a un passo dal pianto. Bene o male, una pubblicità costante che sembra dire, con un cartello fluorescente scritto a caratteri cubitali: sì, parlo di cose serie. E non sono i temi, le cose serie, a imporci di parlare così. Si può ridere di tutto, purché lo si sappia fare. Alcuni non riescono. Alcuni preferiscono gli spiegoni, il one man show delle interviste vis a vis, à la Floris per intenderci, in cui si spiega qualcosa che è stato approfondito per un po’, il tempo sufficiente per infilarsi nel flusso del trend.
Non è che lo si faccia in cattiva fede, intendiamoci. I riflettori sono una tentazione per chiunque e uno specchio a volte deformante. Quindi il merito della Cortellesi è comportarsi da intellettuale in un senso meno appariscente del termine. Ha ragionato molto sul suo film, ora il suo film prova a far ragionare. Non c’è bisogno della sua mediazione, il pubblico non è intellettualmente un sordomuto a cui fare dei segni, come in molti pensano. Bisogna trovare la chiave. La chiave è quella cosa che o ce l’hai o non ce l’hai. Puoi essere bravo, puoi essere studiato, ma devi prenderci, lanciare l’esca dove va lanciata. Oggi gli intellettuali pescano con la corrente elettrica, barando. Cortellesi no. Ha scelto un tema in trend? Ovviamente. Lo ha fatto in modo nazionalpopolare? Assolutamente sì. E quel bianco e nero fa rabbrividire.
Ma non ha dovuto spiegare niente al suo pubblico. Non ha dovuto dirci cosa interpretare cosa. E non ha dovuto invecchiare inutilmente la sua opera, per renderla di spessore. Lo spessore è dato dalla leggerezza di due donne che parlano male di un morto appena morto padre di un uomo morto dentro, perché violento (interpretato da un inedito Mastrandrea), e che, si spera, sarà socialmente morto presto. Lo fanno senza troppa retorica, più con la goffaggine comica di persone che si fanno carico davvero di quei dolori, di quel genere di sottomissione. Ma che vogliono proteggere i propri figli (e magari anche se stesse da cose peggiori). La differenza sta qui.
Si può accogliere in modo elegante il successo o lo si può invocare, evocare, bramare, richiedere, costruire con tanti sforzi e una notevole dose di narcisismo. Cortellesi non solo ha evitato tutto questo, ma continua a evitarlo a quasi ventiquattro milioni di euro dal debutto. Gliene mancano pochissimi per raddoppiare, in incasso, il costo di produzione. Forse perché sa quello che fa e, soprattutto, sa chi è. Anche gli altri, certo. Ma lei forse è riuscita a capirlo grazie al pubblico, senza sforzi artistici, perché l’estetica di C’è ancora domani è la stessa delle sue commedie, del solito. Cortellesi ci fa sentire a casa ma ci dà fastidio. Ci fa anche essere fieri delle conquiste fatte finora – esemplificate dal diritto di voto delle donne ottenuto dopo la Guerra – che certo non cancellano la strada che ancora c’è da fare, ma mettono le cose in chiaro. Si può, c’è ancora domani.
O sei Baricco o meglio essere Paola Cortellesi. Baricco può calcare i palchi di mezza italiana e risultare snob quanto vuole. È Baricco e la sua opera continua a parlare per lui. Ma chi bacchetta e fa la morale agli altri, magari con discorsi incomprensibili (Chiara Valerio) o con un’ironia che ha poche basi (Selvaggia Lucarelli), dovrebbe imparare da chi non crede di dover dare lezioni a nessuno e invece la dà a loro. Non serve fare le dive per essere buoni intellettuali. I discorsi incomprensibili: Chiara Valerio, tra paste, gastronomia spicciola e irrealistica (il mondo della cucina è un'eterna battaglia, al contrario di quello che crede) e femminismo da Festa dell'Unità, gioca ad asso pija tutto da un po' di anni, forse prendendo esempio dalla compianta Michela Murgia, a cui sarà dedicato l'ultimo appuntamento di una fiera della piccola e media editoria (a un'autrice Einaudi?) per i prossimi tre anni; ovviamente una fiera, Più libri più liberi, diretta dalla matematica, anche lei, einaudiana. Intellettuale, sì, che scrive quasi tutto, fuorché bei romanzi, e che inspiegabilmente non si acquieta, non si gode la fama, ma continua ad avanzare, un po' alla cieca un po' con strategia, in un mondo che vede quelle come lei acquistare sempre più potere. Insomma, tanto rumore per (coprire il) nulla. O peggio: per coprire quasi il nulla. Perché qualcosa c'è, il minimo indispensabile per sopravvivere in un mondo, almeno in teoria, fatto di carta e non solo di parole ai microfoni.
Selvaggia Lucarelli, che è sostanzialmente Piero Pelù e Francesco Renga se avessimo interesse ad ascoltare l'opinione di Francesco Renga e Piero Pelù più di una volta al mese, è un altro esempio in antitesi con quanto sta dimostrando Paola Cortellesi. Poco, ma fatto bene; e quel poco portato avanti con eleganza, senza gridare all'untore di turno, senza creare gogne mediatiche. Senza sfruttare il tema per generarne di altri, più congeniali e all'altezza dei propri standard. Se gli intellettuali avessero un ruolo di potere in Italia, sarebbero i padri di una nuova oclocrazia, una sorta di demagogia violenta (vedi Polibio), fatta di personalismi e mele da lanciare al malcapitato. Dei populisti, tanto quanto quelli che normalmente criticano.