Credo fermamente che Hackney diamonds dei Rolling Stones, più che un semplice (bel) disco, sia l’equivoco del decennio. Proverò a spiegarvi perché. L’avete ascoltato? Beh, solo una persona (molto) in malafede potrebbe affermare che sia sgradevole o mal concepito. I riff non graffiano più di tanto, ma i ritornelli sono tutti potenziali tormentoni e Mick Jagger che ricorda le sue umili origini a Fulham (Whole wide world) è oro. Avete anche letto qualche recensione? O i commenti in stile “Mick still rockin’ at 80” che hanno invaso il web? Perché se vi siete imbattuti in qualcuna delle recensioni adoranti (che potete trovare, una in fila all’altra, su Metacritic) o in una dozzina – fra i migliaia – di messaggi che celebrano la ruggente vecchiaia rock degli Stones, allora vi chiederete come sia possibile che un disco “piacevole e concepito bene” sia stato salutato come la cosa migliore dai tempi del sesso libero. Tutto questo entusiasmo per la linguaccia solo perché il brand degli Stones è ancora suggestivo e irresistibile? Non proprio, stavolta c’è di più...
Intanto due brevi premesse apparentemente scollegate. La prima è che per il sottoscritto invecchiare facendo rock – o qualcosa che abbia intimamente a che fare con il rock – è possibile, addirittura un atto benvenuto. A patto, però, che chi invecchia mi mostri cosa significa avviarsi verso un biologico (ma non solo) tramonto. Ergo, i dischi del tardo Bob Dylan per me sono stati spesso irrinunciabili perché mi hanno avvolto in un’atmosfera, totalmente “altra da me”, che solo un grande cantautore americano nato nel 1941 poteva rendermi accessibile. La seconda premessa è che i Rolling Stones sono stati una band talmente fondamentale che già a partire dai primi anni Settanta non avevano più nulla di particolare da dimostrare a nessuno. Con Exile on Main st. (1972) avevano già compiuto un viaggio definitivo, profondamente didattico per chiunque avrebbe imbracciato una chitarra elettrica – o si sarebbe cosparso la bocca di fraseologia “rawk n’ roll” – nei successivi quarant'anni. Per arrivare al dunque: nel 2023, dopo diciotto anni, gli Stones sono tornati con un nuovo album ed è partita subito la gara a chi si straccia le vesti con più virulenza. “Ah, gli Stones! Sono tornati, sono ancora loro!”. Ma davvero? Siete sicuri? Siete sinceri? Hackney diamonds, prodotto dal controverso Andrew Watt (il suo curriculum, a livello di produzioni, è una lista che tende al pop nonostante la firma su Every loser di Iggy (Pop): Justin Bieber, Miley Cyrus, Post Malone e quell’album super-fake di Ozzy Osbourne del 2020), è il suono di un disco “in stile Stones”, tipo la bevanda “al gusto/aroma di cioccolato” dei distributori automatici. Dove sono esattamente, in questo disco, Mick e soci? Vanno cercati sotto una produzione scintillante (ma davvero il nuovo singolo di una band di ottantenni, Angry, deve suonare obbligatoriamente e sfacciatamente “contemporaneo”?), zeppa di suoni “ultra-lavorati/elaborati” (sto traducendo il più funzionale ed esplicativo “over-processed”). Qualcuno, fra i recensori del web (Anthony Fantano, Martin Popoff), ha notato il tasso di studiata artificiosità dell’operazione. Per il resto è tutto un richiamo, quasi un riflesso pavloviano, al “buon vecchio (e genuino) rock”.
E qui l’asino incespica e vacilla. Fino a cadere. A chi è destinato un disco degli Stones così “giovane, algido e contemporaneo”, senza alcuna sbavatura, privo di qualsiasi sporca imperfezione? Teoricamente a chi degli Stones non è mai fregata una mazza, ossia agli zoomers, o quantomeno a una fascia di pubblico che potrebbe partire proprio da Hackney diamonds per ficcare naso e orecchie in uno dei cataloghi più intriganti offerti dal mito rock. Eppure, a giudicare dalle migliaia di recensioni/reazioni/commenti sul web, gli eccitati veri sono i fan storici della band, persino chi li ha visti nascere (o quasi) – beh, diciamo “crescere”. E allora ammettiamolo, dai: i saggi non esistono più e non esisteranno mai più se persone over-50, over-60, over-70 sono disposte a dirci che questi sono i soliti vecchi Stones. Cioè, anni a ripeterci che i suoni asettici e compressi, un beat vagamente da club (per non parlare dell’autotune o di qualcosa che tiri all’hip hop) e l’ossessione per “l’appetibilità pop” sono il cancro della musica, il Male in terra, e adesso che esce un disco super-costruito come Hackney diamonds tutti a strepitare che Gesù è risorto? E attenzione, un modo per elogiare Hackney diamonds, senza però suonare oltremodo contraddittori, esiste. I boomer di cui sopra potevano infatti cavarsela, elegantemente, con una dichiarazione-confessione che li avrebbe fatti apparire realmente connessi al mondo di oggi, ossia “evviva la IA nel rock”.
Hackney diamonds – e quello degli Stones non è affatto il primo e unico caso – è quanto di più vicino a “un classico ripensato secondo l’Intelligenza Artificiale”. Una IA scaltramente calibrata sui giusti parametri, interrogata da chi gli Stones li conosce perfettamente. La IA, dal canto suo, risponde suggerendo una Lady Gaga in modalità “Gimme shelter”, bisbigliando a Watt di far sentire, ogni tanto, il timbro di chitarra del vero Keef; di lavorare sulla voce di Jagger affinché suoni sempre – senza cedimento alcuno – come quella di un gatto sexy e scorbutico. Di chiudere con un bluesaccio come Rolling Stone blues di Muddy Waters – questo sì, davvero, vicino a come gli Stones potrebbero realisticamente suonare nel 2023 –, un tipo di pezzo che speravo potesse contagiare, come mood, anche altre tracce del disco. Vi piace davvero Hackney diamonds? Liberissimi, piace anche a me: è un disco che si fa ascoltare con un sorriso sulle labbra, soprattutto per via dei testi e delle melodie. Il problema non è affatto l’album in sé. Il problema sono anni di interminabili filippiche sul perché il rock sia morto, contro la decadenza del gusto medio, contro chiunque non suoni abbastanza “vero” e contro chiunque suoni furbescamente pop. Per cosa? Per portare in trionfo Hackney diamonds, che di queste filippiche, ovviamente, se ne frega alla grande. Insomma, potevate dirlo prima che era solo una questione di fede.