Archiviazione, il fatto non sussiste. Serena Doe festeggia sui social la fine dell'incubo che l'ha accompagnata per circa un anno: l'accusa di “essere a capo di un gruppo violento, omofobo, misogino, dedito al dossieraggio e alla condivisione di materiale intimo”. Il tribunale degli attivisti social, dal quale era partito tutto, perde contro il tribunale reale, quello fatto di leggi, giudici e avvocati. Una sentenza che offre uno spunto teorico sulla moderna inquisizione fatta di reel e stories indignati da postare su Instagram. Come scrive la Mazzini, cognome di Serena Doe: “Se l'attivismo diventa violenza social non è più lotta. È linciaggio”. Come darle torto: la pratica è sotto gli occhi di tutti, ogni singolo giorno: una notizia qualsiasi offre l'occasione di attaccare un personaggio, polarizzando il dibattito. Gli influencer cavalcano il trend senza verificare e senza offrire il beneficio del dubbio, creando quella che a tutti gli effetti diventa una gogna mediatica il cui fine non è la verità, ma monetizzare sulle interazioni. Il mestiere è redditizio, nulla di cui stupirsi, ma le conseguenze sono disastrose per chi viene colpito e trasformato in un capro espiatorio a favore di like, roba che il Benjamin Malaussène inventato da Daniel Pennac al confronto è un novellino.

Serena Doe, il cui vero nome è Serena Mazzini era stata accusata da diverse attiviste e influencer - tra cui Valeria Fonte, Carlotta Vagnoli, Silvia Semenzin, Giuseppe Flavio Pagano e poi anche Jennifer Guerra - di aver partecipato a un gruppo Telegram in cui sarebbero circolati body shaming, sessismo, bullismo e contenuti privati di altre persone. Le accuse erano esplose soprattutto attraverso le Instagram stories, dove si era parlato di un gruppo di circa settanta persone che avrebbero condiviso anche chat intime e foto private. Serena Doe aveva ammesso l’esistenza del gruppo, precisando di non esserne stata la creatrice e di averlo vissuto come una chat privata tra amici. Ha raccontato che lì dentro si erano scambiate foto di animali, ricette, sfoghi personali e discussioni su temi sociali, come lo sharenting o il fenomeno degli influencer. Aveva inoltre sottolineato che i commenti partivano da contenuti pubblici già online e che non c’era mai stato alcun intento di “dossieraggio”. Il gruppo, aveva aggiunto, era stato chiuso circa un mese prima che scoppiasse la polemica, e il tempismo delle accuse le era sembrato sospetto. Ma i forconi e le fiaccole di attiviste e attivisti erano già partiti Così, eccoci al lungo e meritato sfogo post-assoluzione.

“Il giudice ha archiviato: non c'era nulla. La domanda resta:perché volevano distruggermi? II 3 giugno 2024 la mia vita si è fermata. Proprio durante uno dei periodi più floridi,dopo un anno in cui avevo portato avanti battaglie importanti come quella sulla esposizione dei minori ed in piena scrittura del mio libro sono stata affossata, umiliata,abbattuta. Erano circa le 10 del mattino quando Valeria Fonte ha pubblicato una serie di Instagram stories con un intento dichiarato: far vacillare la mia reputazione”. Già: il tribunale social funziona così. Cercare la verità richiede un tempo inadatto ai cuoricini. Molto meglio diffamare? “Pochi minuti dopo, il messaggio si è diffuso a catena. Una catena costruita, voluta e studiata con cura. Lo hanno chiamato call-out: decine di profili con un bacino complessivo di più di un milione di follower hanno rilanciato lo stesso "comunicato", un violento e ingiustificato attacco nei miei confronti che mi ha distrutto personalmente e professionalmente, spacciato per una nobile "pratica di attivismo". Il contenuto era devastante”. Dopodiché, il singolo caso viene universalizzato per tirare verso una causa tale da moltiplicare l'indignazione, quindi le interazioni. “Carlotta Vagnoli ha paragonato il gruppo a La Bibbia dello stupro, un gruppo realmente denunciato per condivisione di materiale intimo non consensuale, dedito alla violenza nei confronti di donne, ragazzine e anche esposizione dei minori bambine. Vagnoli sapeva bene che io mi occupo da anni di esposizione dei minori sui social, che proprio in quel periodo stavo seguendo un progetto di legge sulla loro tutela. Sapeva che avevo denunciato gruppi Telegram per le stesse ragioni. Eppure ha scelto di presentarmi come la capa di un branco che si cibava di materiale non consensuale. "Bizzarro modo di agire per chi si occupa di tutela della privacy", tuonava dal suo piedistallo, lo stesso da cui quotidianamente si erge a baluardo morale della nazione, dispensando giudizi e verità assolute. II tutto è stato offerto ai propri follower come certo e documentato da molti screenshot e prove”.
Poi, visto che il trend funziona, bisogna cavalcarlo finché non si esaurisce. “Vagnoli affermava di aver già denunciato (il giorno stesso) e che il suo avvocato si era detto "allibito". A chi chiedeva spiegazioni rispondeva di avere "tutto il necessario per procedere". Ma, aggiungeva, non avrebbe mostrato gli screenshot in suo possesso perché "non sono come Mazzini". Non poteva certo abbassarsi al mio livello. A loro si sono aggiunte decine di altre voci - compresi account che dovrebbero fare informazione - che mi hanno accusata, tra le altre cose, di essere abilista, di aver fatto "slut shaming", di essere a capo di una campagna diffamatoria costante nei loro confronti”. Il gioco è facile, i social funzionano così. E chi li usa per lavoro, deve buttarcisi sopra.

“E ancora e di più: gravissime accuse sono provenute da Giuseppe Flavio Pagano (@dejalanuit) che sosteneva che io avessi fatto attività di "dossieraggio". Ha creato 3 video in modalità stories "perché bisogna metterci la faccia" e ha narrato ai propri follower, con tono compiaciuto, la seguente storia, dove spiegava che Serena Doe aveva “creato una poderosa macchina di diffamazione e di violazione dei dati personali”. Peccato che dall'altra parte ci sia sempre una persona, in questo caso Serena Mazzini, che a quel punto si sente in trappola: “Il respiro si accorciava, il petto si chiudeva come se qualcuno mi schiacciasse con una mano invisibile. Cercavo aria ma non bastava, le parole sullo schermo diventavano più veloci delle mie difese. Il cuore correva all'impazzata, la testa girava, la vista diventava annebbiata. Era come se lo sciame mi avesse avvolta da dentro mentre mi chiedevo: chi ha deciso di farmi questo? Mentre provavo a tranquillizzare i membri del gruppo presi di mira dalle minacce di Vagnoli, io stessa stavo cedendo al panico. Perché tranquillizzare il gruppo? Non certo per paura che qualcosa di quanto affermato "emergesse" ma perché tra quei 70 partecipanti c'erano persone che avevano condiviso storie dolorose, di violenza domestica, di soprusi lavorativi. Avevano condiviso aspetti intimi delle loro vite, per un confronto, un conforto e temevano che i loro nomi, come minacciato, venissero fuori uno a uno”. Però la giustizia, anche se ha tempi lunghi, prima o poi arriva, se è il caso. “Carlotta Vagnoli mi ha denunciata. Solo lei. Di tutto il gruppo, solo lei ha scelto di farlo. leri la Sua querela è stata definitivamente archiviata perchè non vi è mai stata alcuna diffamazione.
Peraltro ho potuto apprendere che: non è vero che ha denunciato il 3 giugno. Ha denunciato solo il 2 settembre, l'ultimo giorno utile dei novanta previsti dalla legge, solo dopo che l’ho presentato una denuncia-querela perché io sì che sono vittima di diffamazione, quella portata avanti da tutti questi soggetti che si sono messi insieme per costruire una storia inventata senza nessuna prova creandomi un dolore indescrivibile. Non è vero che aveva screenshot e "tutto il materiale del caso per procedere" come ha affermato con sicumera ai suoi follower il 3 giugno 2024. Non c'era niente di niente: solo testimonianze definite dalla Procura della Repubblica lacunose e fumose, un telefono senza fili,appunto. Non è vero che mi ha denunciata in quanto "incel omofoba a capo di un gruppo simile alla Bibbia dello stupro". Mi ha denunciata per diffamazione perché avrei osato criticare il suo operato e alcune delle loro iniziative. Praticamente è giusto esporsi ma non è giusto criticare l'altrui operato. Peccato che è un anno che ricevo da qualcuno di loro attacchi pressochè quotidiani addirittura con tag al mio profilo. Non hanno agito per attivismo. Hanno agito, in gruppo, per distruggere "i nemici".
La conclusione è facile da trarre, soprattutto per chi, come la Doe, di lavoro analizza il funzionamento dei social network. “E la colpa, in parte, è anche di chi li ha legittimati. O meglio: non è nemmeno colpa vostra, ma della piattaforma, che premia chi sa polarizzare e ci spinge a sentirci in difetto se non supportiamo certe "cause". Dentro questo meccanismo hanno costruito una posizione dominante, che non è servita a liberare, ma a colpire e distruggere. Costruire un'identità pubblica indignata, radicale,"militante"serve a guadagnare attenzione, follower, credibilità. È la moneta con cui si scambia poi visibilità con case editrici, festival, media tradizionali. L'indignazione quotidiana che diventa marketing. La sorellanza e il transfemminismo vengono agitati come bandiere,ma servono soprattutto a consolidare un brand personale, a vendere libri, a conquistare spazi televisivi e scolastici. Sapete quante persone fragili del famoso "gruppo" sono finite in ospedale? Un ragazzo giovane e promettente, che ha dedicato tutta la sua vita allo studio, ha perso la possibilità di vincere un dottorato perché la depressione lo ha bloccato a letto per mesi. La paura che il suo nome venisse fuori, come il mio,con accuse senza senso come quelle a me mosse. Da anni portano avanti un giustizialismo spietato,che chiede le teste di chiunque. Così la forza dei movimenti politici si disperde, e resta solo la. violenza del branco. lo, invece, oggi sono qui a chiedere giustizia nell'unico luogo possibile ovvero il Tribunale”.
