Sempre dritto da via Trastevere, superi il ministero dell’Istruzione, palazzone dalle colonne tirate a lucido (meglio fuori che dentro, se capite che intendo), poi qualche svolta, cercate su Maps, e arrivata Da Vittorio a Trastevere, dieci metri quadri – si fa per dire – di romanità. Consigliato da chi vive e studia a Roma, entriamo e sentiamo solo romani, buon segno. Gli autoctoni lo scelgono, vediamo cosa prendono. Ci sediamo e ci guardiamo intorno, affamati per colpa dello sciopero dei treni che ci ha costretto ad attendere per oltre un’ora un regionale in grado di portarci da Roma Termini a Roma Trastevere. Mangiare romano è imperativo, certo, ma anche necessario. Il menù, infatti, non dà scelta. E quando deontologia e ontologia, usiamo dei termini difficili, viaggiano insieme, vale la pena di fidarsi. Due calici di vino, due antipasti – che in realtà sono catalogati come fritti – un primo e un secondo. Al dolce ci arriviamo. Ecco come è andata.
Calici, va da sé, della casa, un rosso e un bianco. Su una lavagnetta ci sono i piatti del giorno: supplì al telefono, carbonara con tartufo. Noi restiamo alla carta. Iniziamo con due fiori di zucca pastellati con mozzarella e alici e due pizzottelle con pomodoro e parmigiano. Dobbiamo rinunciare alle bucce di patate fritte con pecorino, ma l’idea è di riuscire a chiudere la cena entro la fine dell’anno. Mentre il cameriere si gira ci chiediamo se abbiamo sbagliato a prendere due soli fiori di zucchi. Saranno mica pochi? Anzi, che siano pochi è un dato di fatto. Come scrisse qualcuno, non ricordo chi, due è in effetti il numero minimo per poter parlare di “pochi”, al plurale, e non di poco. Tolto l’inganno dello zero, un numero naturale, intero non negativo alquanto bastardo, visto che nella realtà non vuol dire quasi nulla (provate a ordinare al cameriere zero fiori di zucca), il dubbio è rimasto per cinque minuti, il tempo che arrivassero, puntualissimi nonostante il piccolo locale fosse pieno di comitive rumoreggianti, i piatti. Le pizzottelle sono dei triangolini di pizza fritta con pomodoro e parmigiano, molto pomodoro e parmigiano che cola sul piatto. Un sogno d’oro su cui torreggia una foglia di basilico per sgrassare (anche qui, si fa per dire). Buonissime e decisamente grandi. Tutti i piatti, per essere subito chiari, sono decisamente enormi. Pasta per tre, dice la mia compagnia al tavolo, trippa, che ho preso io, per almeno due (ma io sono quasi il doppio per altezza e peso, per cui potreste moltiplicare ancora per due). Passate le pizzottelle affrontiamo i roventi fiori di zucca. Avete presente i tacchini o i galli spiumati, svuotati e appoggiati sul tagliere prima di manometterli ulteriormente? La dimensione del fiore di zucca paratosi davanti ai nostri occhi era circa quella di un pollo, o della coscia di un airone. Pastella chiara, vuol dire che la frittura non è stata ignobilmente lunga e lasciata a se stessa. Il contenuto era dolce e acido, con una mozzarella in luogo della ricotta che abbassa la sensazione di mangiare troppo salato. Ottimi ed enormi, per questo inaspettatamente economici (per lo stesso prezzo, una volta ad Assisi, ricevemmo una zampa di formica fritta con un sentore di ricotta e più di un sentore di presa per il sedere).
Passiamo al primo. Ovviamente tonnarelli alla carbonara. Arrivano in una pentola, la chioma bionda del piatto si affaccia sui bordi mentre la cameriera si avvicina al tavolo. Il guanciale è, grazie al Signore, spesso, ciancicoso bene, cioè croccante ma non biscottoso. Un guanciale fatto sudare che ci fa divertire. C’è la carbocrema, sì. Ma ha l’aria di essere un paio d’uova (un tuorlo e uno interno?) che non si accorto della magia: carbocrema fatta con nonchalance, magari girata in padella senza troppi crismi, eppure senza aria il rischio strapazzata. Buonissima e non eccessiva. Sempre a Trastevere in un’altra occasione assaggiammo una carbonara con cialda improponibile di parmigiano (amarissima) e una crema praticamente a base di formaggi (forse misti). Ma dov’era l’uovo? E il pepe? E il guanciale (sminuzzato come fosse prezzemolo?). Stavolta invece ci siamo, con una quantità di crema proporzionata alla pasta, ovvero leggermente più del necessario, così da permettere di fare con l’ultima forchettata la scarpetta (che mi è stata gentilmente offerta dalla mia metà come boccone del prete).
Arriviamo alla trippa con crostini. Trippa tipica alla romana, con quella elasticità che ti aspetti, una elasticità da seppia, se capite cosa intendo. Forse pochi crostini per la quantità di trippa, che arriva in un pentolino, ma ci pensano i camerieri, che portano un cestino di pane ottimo (che, purtroppo, avanzerà). La attacco. Come mangiare una spugna, la spugna con cui Dio ha cancellato le nuvole quando fece i cieli. O qualcosa del genere, se capite cosa intendo. Stranamente delicata, diverse da quelle provate di solito. Decisamente meno banale del previsto, per nulla oliosa. È un piatto anarchico, che non puoi gestire né con la forchetta né con il cucchiaio. Forse un po’ con il cucchiaio e del pane. È il momento di dolci. Una fortuna che purtroppo lasceremo ad altri. Otto tipi di tiramisù, uno più carico dell’altro. Miele e noci, con pistacchio, con fragole, con rum scuro, con Bailies. Ci avviciniamo al frigorifero per vederlo, giallo, giallissimo; che è il colore di questa cena, dai fritti alla carbonara. È troppo, lo so io e lo sa lui, che mi guarda e sembra dire: “Nun ce provà”. E io non ci provo. Torno a sedermi, sculacciato dal dessert più famoso d’Italia. Ci riproviamo con qualche ciambellina e un cannellino. Siamo abbastanza certi che il tiramisù sarebbe stato decisamente migliore, ma va bene così. Ci alziamo, ringraziamo, paghiamo e usciamo e cerchiamo, tra le svolte, quella leggermente in discesa, così da poter arrivare a casa rotolando.