Meglio un rocker malato che una popstar imbalsamata. Deve essere così stando alle XII tavole del rock ’n roll, ed è così stando ai fatti brutali della performance, come abbiamo visto sabato a Milano agli I-Days, in mezzo al pubblico dei Queen of the stone age. Strano giro italiano quello 2024 dei Qotsa. Un concerto a Roma nel quale hanno pettinato l’auditorium Parco della Musica e hanno fatto tornare nella testa di molti la frase di Dave Grohl: “Nessuno può provare nemmeno ad avvicinarsi a loro. Sono dei fottuti bastardi. E lo sanno”. Poi il concerto saltato a Romano D’Ezzelino per “malattia” pare di Josh Homme, che ha fatto temere l’annullamento anche della puntata milanese. Che per fortuna invece poi c’è stata. Homme era acciaccato e ha lasciato il pubblico dell’ippodromo Snai dopo solo un’ora e un quarto e 15 canzoni. Poco. Ma qualcosa. I Qotsa sono la più grande rock band in circolo, da anni.
Il rock ’n roll è una cosa malata e ha leggi malate, o almeno molto strane. Non è fatto di gruppi morti da tempo che si presentano sul palco come auto-tribute band, vedi alla voce Metallica. James Hetfield canta “Sono il signore delle marionette e tiro i tuoi fili”, ma si è scordato il malessere del reietto che fu e ora regala grugni solo scenici, sorrisoni solo sinceri, e post-karaoke. E il rock ’n roll non è Vascone nostro che mette in bella calligrafia la quantità impressionante di hit che è stato in grado di partorire coi suoi mal di stomaci e le sue pene d’amor (e di palle e polveri) perdute, e intanto la nave scenica va, le luci sono sincronizzate al click negli ear monitor, e tutto gira fluido tipo teatro dell’Ottocento. Questo non è rock, è (un bellissimo) mainstream pop, è rassicurazione, è confort food, l’equivalente musicale del piatto cremosissimo, o delle lasagne di nonna di Zocca.
La storia dei Qotsa, che ruota intorno a una sola persona, è tutta nota. Joshua Homme (1972), infanzia a Palm Springs, prime lezioni di chitarra da un maestro di polka (ecco il perché dei tanti 2/4 e dell’impianto tonale e non modale dei suoi pezzi), i circoli di musicisti e fattoni coi party nel deserto per sfuggire alla polizia locale, con un gruppo elettrogeno, un impianto voci ed eventuali gruppi di narcos messicani. Le risse. Le birre calde. Le drogone chimicone. Le chitarre abbassate di un tono e mezzo o due, la scansione tellurica del ritmo e i bordoni elettrici che rendono l’atmosfera desertico-allucinatoria. I canoni del suono Stoner-Rock/Desert Rock sono già nel primo gruppo di Homme, i Kyuss. Poi arriva l’applicazione di questo suono a un grande songrwriting come quello di Homme, quindi la nascita dei Qotsa, i tanti cambi di formazione (sono entrati e usciti da Dave Grohl a Mark Lanegan, tanti altri eccellenti) in un gruppo aperto, in una storia di 15 anni e tutto sommato pochi dischi, otto. Sentiti, originalissimi, con un suono da bastian contrari: amplificatori da basso per registrare le chitarre, batterie senza i piatti (sovraincisi a parte), idiosinrasie nei colori del sound e della produzione.
Il successo mondiale con Songs for the deaf (2002) con le mega hit Millionaire e No one knows. L’esperienza di pre-morte di Homme, che gli ha fatto scrivere un disco perduto e romantico come Like Clockwork (2013). E poi gli happening musicali allo studio di Dave Catching, il Rancho de la luna, con le Desert Sessions alle quali hanno partecipato da PJ Harvey ad Alex Turner degli Arctic Monkeys, a Billy Gibbons degli ZZ Top e altri tanti. E bisogna almeno accennare agli Eagles of death Metal, fondati da Homme, che però la sera del 13 novembre 2015, a Parigi, nella notte del massacro al Bataclan, non era con loro.
A Milano i Qotsa aprono con una Little Sister arrapata il giusto, con dentro già tutto della band: la voce dolciacchiotta di Homme la sua chitarra col fuzz/octave e gli assoli anti-vituosistici (semplicemente musicali, errori compresi). Si prosegue con il funk spaccapietre di Smooth Sailing, altra apoteosi del suono Qotsa: le chitarre sono tre, quella di Homme, quella di Troy Van Leeuwen, quella del polistrumentista Dean Fertita (anche al piano e alle tastiere se serve), tutte e tre spudoratamente e volutamente centrate sulle frequenze medie, sabbiose, petrose e anti-estetiche, per la fatica dei tecnici del suono che devono farle combaciare e la gioia dionisiaca del pubblico. Già che abbiamo citato le XII tavole del rock ’n roll: i Qotsa non usano basi e non usano clicktrack, e infatti i pezzi oscillano in velocità, come può e deve succedere a chi non ha inibizioni calligrafiche ma sa mettere su un suono a pennellate ampie e a badilate decise. Il bassista Michael Shuman è una gran macchina da stoner con il suo suono in overdrive. Il batterista Jon Theodore comincia forte e continua più forte. E peccato per il volume all’ippodromo Snai, è basso. Due array di casse in più sarebbero state il minimo. Ci sono i pezzi storici, i “nuovi” classici (My God is the sun), ci sono forse troppe canzoni dall’ultimo disco In times new roman. Forse il picco del concerto è The lost art of keeping a secret, elogio del nascondimento iniziatico, non posso dirne di più o rischio di perdere la licenza esoterica. C’è la chiusura con i classiconi, appunto Millionaire, No one knows, e Song For the dead, che infine è il momento pop del gruppo. Un pop desertico e giustamente brutale. E infine dissolvenza al nero. Homme è ammalato e anche con e per questo sa fare un bel concerto.