Molti di noi si ritrovano incollati a serie televisive o a programmi che, pur essendo prodotti con enormi budget, risultano irritanti e deludenti. Questo fenomeno solleva interrogativi sulla natura del nostro rapporto con i contenuti televisivi. Ma soprattutto sulla psicologia che si cela dietro il nostro desiderio di continuare a guardare ciò che non ci piace. Riprendendo una riflessione d'oltreoceano dove la pensano proprio come noi, la tv non è solo uno specchio della società, ma anche delle nostre contraddizioni personali. E mentre viviamo in un’epoca d’oro per la televisione con produzioni e cast a livelli senza precedenti, ci ritroviamo a guardare qualcosa che riteniamo irritante o addirittura “brutto”. Ma allora, perché lo facciamo? Uno dei fenomeni più diffusi in questo contesto è quello del cosiddetto “hate-watching”, ovvero la pratica di guardare uno show, un reality o una docuserie proprio perché li si trova irritanti. Un comportamento che a prima vista risulta paradossale, ma che in realtà è molto più comune di quanto si pensi. In pratica una forma di intrattenimento perverso, in cui il piacere deriva dall’indignazione o proprio dall’irritazione. Questo fenomeno è particolarmente evidente nei reality di ultima generazione o in alcune serie che sfruttano cliché narrativi, colpi di scena forzati o personaggi volutamente scorretti. Tutte produzioni, comprese quelle italiane, che tra poche ore verranno presentate ufficialmente, già riempiranno in massa i palinsesti invernali delle emittenti tv. Da Temptation Island al Grande Fratello, tutti criticano i format eppure i dati di ascolto o il ritorno mediatico non mentono. Davanti a tali programmi, lo spettatore si sente in qualche modo superiore e giustificato rispetto ai contenuti che consuma, sviluppando una sorta di dipendenza dalla propria irritazione.
È un po’ come sentirci meglio con noi stessi, mettendo in luce le nostre capacità di spettatori critici. Infatti, in un mondo sempre più connesso, la tv non è più solo un passatempo individuale, ma un vero e proprio fenomeno sociale. Le discussioni su serie e programmi dominano ormai i social media, le conversazioni tra amici e le chiacchierate in ufficio o durante le pause lavoro. Non seguire l’ultimo show del momento può persino significare essere esclusi da queste dinamiche sociali. Anche quando un programma è chiaramente di scarsa qualità, il desiderio di partecipare alla conversazione può spingerci a continuare a guardarlo. In questi casi, è evidente che il valore sociale del consumo televisivo spesso supera il giudizio critico sulla qualità del contenuto. E se negli ultimi mesi si è investito tempo ed emozioni in quella serie o dietro a quel programma specifico, conosciuto i personaggi, affezionati a determinate dinamiche, l’idea di lasciarla a metà può sembrare insopportabile. Questo si traduce nell’incapacità di abbandonare, l’impegno di tempo o energia diventa una sorta di “impegno psicologico” e l’idea d'iniziare da capo con qualcosa di nuovo è troppo faticosa. Spesso ci si illude che il prossimo episodio possa finalmente risolvere i problemi narrativi che danno fastidio. Una speranza che si basa su un’idea ottimistica del cambiamento, ma anche sul meccanismo di ricompensa ritardata, in cui il nostro cervello è disposto a tollerare periodi di frustrazione in cambio di una possibile ricompensa futura. Un meccanismo in realtà alimentato anche dagli stessi studi di produzione, che tendono a inserire cliffhanger e colpi di scena nei momenti più critici, lasciando lo spettatore con la sensazione che “deve” sapere cosa succede dopo, anche quando è palesemente deluso o annoiato da quanto visto fino a quel momento. Tutto questo non fa che confermare quanto complesso e stratificato sia il nostro rapporto con la televisione, specchio delle nostre contraddizioni personali ma anche culla della tuttologia. Continuiamo a guardare ciò che ci irrita, perché in qualche modo, forse inconsciamente, ne abbiamo bisogno. E, mentre ci lamentiamo, non vediamo l’ora di tornare a casa e accendere la tv per scoprire cosa succederà dopo.