Italiano di seconda generazione, Tommy Kuti – sì, Kuti come Fela e Femi – arriva in Italia con la famiglia, dalla Nigeria, a soli due anni. Cresce a Castiglione delle Stiviere (Mantova), poi si sposta a Brescia, quindi a Milano, dove vive da qualche anno. L’università, però, la fa in Inghilterra, a Cambridge. “La mia vita è stata intensa. Ho lavorato in un Apple Store, ho fondato un collettivo chiamato Mancamelanina. Attorno alla metà degli anni ‘10 sono approdato a Universal Music Italia, ora sono distribuito da Believe Music”, ci ha detto. La musica l’ha innalzato, verrebbe da dire; gli ha permesso di gettare lo sguardo verso il cielo, alla ricerca di qualcosa di grande. “Il nuovo singolo, “Tutto un gioco (Ololufemi)”, è figlio della mia vita a Milano, ma soprattutto della mia idea di amore: un amore libero. Libero e divertente. Bisogna essere positivi, sorridere”. La simpatia di Tommy è contagiosa quanto la sua passione per l’afrobeat, suono più che mai globale che lui ha contribuito a portare in Italia. “Ho condiviso un vostro recente articolo (a firma di Giuditta Cignitti, nda). Mi ha stupito perché avete distrutto il pezzo di Villabanks. In ambito urban, in questo periodo, nessuno parla male di nessuno. Nessuno stronca nessuno, in campo hip hop. Non ero più abituato alle recensioni critiche”.
A che punto sei della carriera? E come sta l’afrobeat?
Diciamo che sono in una fase di restyling e rebranding. Nel mercato musicale ci sono entrato grazie alla mia passione per il rap, ma negli ultimi anni mi sono sempre più avvicinato alle sonorità della mia Nigeria. Ho abbracciato l’afrobeat con slancio. Ora sto provando a mettere insieme afrobeat e lingua italiana. Dico che ci sto provando perché è dura: non c’è nessuno a cui mi possa ispirare.
Le strade parlano afrobeat già da qualche tempo, i locali forse un po’ meno…
In Italia l’ondata vera non è ancora arrivata, ma a livello mondiale l’afrobeat conquista tutti. Non c’è città di mare nella quale non si balli l’afrobeat. Il trend è iniziato attorno al 2008 con P-Square, oggi ci sono artisti nigeriani (Burna Boy) che riempiono gli stadi di tutto il mondo. Negli States già si parla di come l’afrobeat abbia tolto spazio all’hip hop. Prima il focus sulla musica black era americano, oggi questo focus sta andando verso l’Africa. L’Italia, però, non fa ancora parte dei tantissimi paesi che stanno celebrando questo sound.
Come te lo spieghi?
Difficile dirlo. Due settimane fa ho fatto un concerto in Algeria. Non capivano le parole, tranne qualche mia frase in inglese, ma hanno perfettamente capito la musica. L’Italia è un paese di parole più che di ritmo. Che si parli di club o di un concerto di Vasco Rossi, l’artista deve dire al pubblico “su le mani”, mentre altrove tutto questo scatta spontaneamente. Se penso anche all’hip hop, non vedo artisti che si sbattono per avere una hit che funzioni bene in discoteca. Puntano alla radio, a TikTok, molto meno alla discoteca. Ed è un peccato, perché l’Italia in passato ha prodotto molta musica da ballare. Anche a livello mondiale.
C’è altro, forse?
Sì, c’è anche un fatto culturale. In Italia determinati argomenti non vengono approfonditi. Oppure arrivano tardi, troppo tardi. Si può dire che qui da noi l’hip hop solo da qualche anno sia veramente forte a livello commerciale, ma il genere ha un lungo passato alle spalle, non è certo un sapore nuovo. In Italia qualche brano afrobeat ha avuto un buon successo (“Calm down”, “Jerusalema”, “Love Nwantiti”), ma i media non ne parlano. Forse perché mancano gli eventi attorno. Forse perché qui gli stranieri sono ancora considerati gli immigrati che arrivano sui barconi. A Brescia ti chiamano ancora “marocchino”, anche se vieni da tutt’altra parte dell’Africa. Come glielo spieghi, a queste persone, l’afrobeat? Come fai a convincerli che alcuni artisti nigeriani sono al top nel mondo? A Milano mi capita di andare a ballare l’afrobeat, ma comunità nera e italiani sembrano ancora due mondi poco comunicanti. Esiste un piccolo movimento, proveniente dall’underground. Qualcosa di simile a ciò che capitava, una decina d’anni fa, con l’hip hop. A parte Fabri Fibra e Mondo Marcio, c’erano tante serate (le battles, ad esempio) solo per appassionati, per nulla mainstream. Oggi quell’underground balla l’afrobeat.
L’afrobeat sta quindi dando qualche spallata alla trap? Solo per questa ragione potrebbe già essere diventato – in questo istante esatto – un genere “simpatico” a molti.
Cinque singoli estivi del 2024 sono firmati da artisti trap/urban, ma hanno sonorità afrobeat. E questo è un problema. Mahmood, Ghali, Gué con Fred De Palma, Capo Plaza hanno fatto pezzi con chiari profumi afrobeat senza dichiararlo. E, soprattutto, senza collaborare con artisti afrobeat. Negli Stati Uniti Chris Brown, se affronta un determinato genere, collabora con un artista del settore. Tutto questo, qui, non accade”.
Oggi si direbbe “appropriazione culturale”, vero?
“Mah, questa è musica fatta per ballare. Se un artista italiano pensa di usare la stessa metrica che userebbe in un brano trap per un pezzo afrobeat, credo che sbagli. Non funziona. In Italia noi africani non siamo tanti. E non abbiamo potere mediatico. Però credo che l’afrobeat non debba fare la stessa triste fine del reggaeton, che è stato trattato come un vestito da buttare via appena sfiorita la moda”.
Torniamo a un Tommy Kuti più giovane, quello che nel 2019 esce in libreria con “Ci rido sopra. Crescere con la pelle nera nell'Italia di Salvini” (Rizzoli). Com’è essere nero nell’Italia di Giorgia Meloni?
“Mi sento fortunato perché, vivendo a Milano, riesco ad evitare l’italiano medio. Quando abitavo nel Mantovano questi temi li sentivo molto miei perché vivevo in mezzo alla gente. Probabilmente l’Italia di Meloni è anche peggio di quella di Salvini, ma certe cose non le avverto più. Il micromondo musicale milanese mi sta proteggendo dalla mediocrità”.
Quali sono i problemi che un Tommy Kuti non musicista oggi potrebbe incontrare? Nell’Italia “media”. O forse, semplicemente, “popolare”.
Credo sia fastidioso sentirsi dire “come parli bene l’italiano” anche se sei nato qui e hai fatto le scuole qui. La difficoltà è ancora quella di raccontare la nostra storia, di fare capire che, al di là dei barconi e della criminalità, siamo figli di gente, come tanta, che è venuta qui a lavorare. Ecco, le persone stentano a capire la nostra normalità.
Oggi, in Italia, un nigeriano e un marocchino hanno qualcosa da dirsi?
In Algeria ho scoperto che talvolta anche sul Maghreb generalizziamo molto. Gli algerini, ad esempio, non si sentono arabi. Molti di loro sono berberi. Per tornare alla domanda… Un nigeriano e un marocchino ballano entrambi musica ritmata, non c’è molto altro che possono condividere. La stessa musica, peraltro, che si balla in Puglia, dove sono molto sul pezzo. Che poi, se ci penso, è strano… Quando su YouTube vedo vecchi video italiani noto un sacco di gente che ballava. Il twist, per dire. Chissà cosa è successo alla mia generazione.
Percepisci il razzismo?
Poco, perché certe cose non mi arrivano. Vivo in un ambiente particolare. So che Milano non è diversa da altre città, ma qui le persone che hanno idee simili possono stare insieme, creare piccole comunità. Certo, se prendessi la metro e mi sedessi vicino a una signora anziana, magari questa subito mi chiede perché siamo così rumorosi. Può succedere. Oggi il razzismo, comunque, è cambiato. Fino a due anni fa i discografici italiani mi dicevano che l’afrobeat non avrebbe mai funzionato, ma oggi producono pezzi afrobeat di artisti italiani. Mi sembra una forma di razzismo. Come si sarebbero sentiti Fabri Fibra, Mondo Marcio e Club Dogo se, nel 2008-2010, avessero scoperto che il rap si erano messi a farlo anche Pino Daniele, Ligabue e Vasco Rossi? Come avrebbero reagito?.
Un feat di un rapper italiano con un artista afrobeat potrebbe quindi essere sufficiente?
Sì, ma non è solo una questione di bianchi e neri. C’è una community di artisti che fa afrobeat. Mi piacerebbe vederla premiata, vedere premiato chi sta diffondendo questo suono.
Un rapper con cui ti piacerebbe collaborare per fare emergere il sound?
Torno all’inizio, a Villabanks. Penso anche ai miei idoli di sempre: Marracash, Guè, Fabri Fibra. Insieme spaccheremmo.