Quando abbiamo capito che stavamo per recensire il cibo ordinato da casa con il delivery avremmo voluto buttarci di testa da Ponte Sisto. Ma abbiamo deciso di optare per l'audacia, d'altronde la vita è una e noi vogliamo crepare da eroi. Quale miglior modo di farlo se non esagerando con i grassi idrogenati? Stasera metteremo a confronto due panini tra il junk food proposto da due diversi ristoranti romani, ordinati mentre stiamo buttati sul divano in assetto spensierato, si spera. Scarica l’app, scegli il ristorante, memorizza il codice (il codice?) crea la carta virtuale, era meglio uscire, attendi il rider. Deliveroo e Just Eat si contenderanno la palma d’oro del servizio più efficiente e del panino più buono tra quelli dispensati a Roma, mentre parte il calcio di inizio della parta tra Roma e Genoa. In quindici minuti arriva Deliveroo, seguito da Just Eat. La scelta è caduta sull’hamburger di pollo fritto di Don’s Meats and Spirits portato da Deliveroo e sull’Ignorante di Cucchi Burgers, Macelleria Cucchi dal 1967, di Just Eat.
![Deliveroo Just East](https://crm-img.stcrm.it/images/42358181/2000x/20250208-152050563-1222.jpg)
Della scarsa, esageriamo, inesistente cura che a Roma i ristoratori mettono nel confezionare i cibi da asporto, vorremmo almeno accennare con un velo di polemica, il giusto dopo essere stati vessati, come clienti, per decenni. Eppure il food delivery è nato in India nel 1890 e opera gloriosamente a Mumbai ancora oggi. Saremmo curiosi di saperne di più, su cibo e qualità del packaging indiano. Nelle nostre esperienze fuori porta apprezzammo efficienza, quoziente felicità data dall’esperienza e cibo sfizioso ben recapitato. Il food delivery è sbarcato in Italia nel 2015 e dovrebbe essere rodato ormai. Fino a qualche tempo fa, ma capita ancora oggi, i contenitori del ‘se me lo incarti me lo porto a casa’ erano gli stessi del rancio ospedaliero del San Giovanni, il nosocomio più celebre nella City amato al pari del fratello San Camillo. Le razioni take away di corsia sono trasportate nelle monoporzioni di alluminio chiuse dal cartone, imprigionato malamente dalle arricciature dei bordi argentati, che quando lo sollevi svampa di calore fetente che bolle il cibo, donandogli quella faccia appetitosa di morto che ti rassegni a ingollare perché la vita è maiala, e forse ti dimettono domani. Ecco, a Roma è sempre stato così. Che si vada al ristorante dignitoso o no, il cibo si è sempre trasportato nelle teglie di alluminio, spesso chiuse con la pellicola trasparente invece che con il coperchio di cartone, o alle brutte con un foglio di carta argentata. Celebre fu invece quella volta che il rider arrivò sotto la pioggia battente, povero Cristo, per consegnare una spartana cena nipponica a noi febbricitanti e soli in casa. Al citofono annuncia "io non salgo fino al piano". Ovviamente, con 38 di febbre e il cappotto siamo andati incontro al lavoratore con in mente Ken Loach ed il suo ‘Sorry we missed you’ e tutta la questione del precariato, che sotto l'ira di Dio ci ha consegnato ciò che restava di una busta di carta contenente una tazza di carta con una zuppa di miso, pioggia e rancore. Troppo stanchi per dire qualcosa, ci siamo scusati noi e siamo tornati nel nostro lazzaretto con i brandelli fradici in mano. Ecco, a questo e altri doggy bag siamo abituati, mentre abbiamo trascorso l’infanzia vedendo film americani in cui i fattorini arrivano sorridenti sino all’uscio di casa, consegnano la pizza e si beccano una porta in faccia gioviale senza prendersela a male. Tra l’altro, non per fare gli esterofili del caz*o, ma abbiamo reminiscenze chiare di delivery londinesi e americani dai contenitori di food dignitosamente presentabili, come è d’uopo per paesi schifosamente consumistici, insomma. A Roma trasportammo una torta gigante confezionata da Tornatora nel porta bagagli di una utilitaria, così, senza neanche un amaro sudario sopra, tra il cric e l’olio motore in latta, in tempi in cui altrove esistevano torte in pasta di zucchero personalizzate e noi qui scialavamo con la solita Mimosa der mi nonno. Tornando alla nostra cena a base di panini tossici, abbiamo scartocciato le buste di entrambi i ristoranti e, ve possiamo di? Entrambe le confezioni si presentano bene. Il burger di pollo fritto di Don’s dovrebbe contenere anche insalata, cipolle cotte, guacamole.
![L'hamburger di pollo fritto di Don’s Meats and Spirits con patate](https://crm-img.stcrm.it/images/42358180/2000x/20250208-151838012-3521.jpg)
![https://mowmag.com/?nl=1](https://crm-img.stcrm.it/images/42358146/2000x/20250124-135850779-2250.jpg)
A parte un lieve sentore di ascella, il panino all’aspetto ciancicato si fa mangiare. Il pollo non è una polpetta fritta di carne macinata separata meccanicamente – il male! - ma un vero petto e mostra le fibre del pennuto sacrificato, insalata iceberg, cipolle tagliate finemente in un bagno di mayo non eccessivamente chimicona. Il guacamole è il triste assente e nel complesso a noi basta che non sia cattivo. Mo, buono è un parolone; ci sfamiamo. Le patate so gioiose sleppe da 10 cm lo spicchio, complete di buccia e salate arrabbiate. Belle eh, per carità, ma davvero salate come il Mar Morto. Il panino è buono se non fosse sta sniffata d'ascella persistente ad ogni morso, la cena è svoltata e per sei ricchi euro abbiamo ‘pure’ la carrot cake. 28 euro in tutto, davvero troppo. Sarà che siamo abituati a standard davvero bassi e non ci stupiamo più di tanto. Noi abbiamo assistito anche ai primi mesti tentativi romani di emulare l’internazionalità in fatto di food con risultati grotteschi. Ci basti pensare a quando arrivarono negli anni ’80 le prime bisteccherie con aria timida e davvero non c’era niente. Eravamo quelle che se avevamo i capelli ricci li stiravamo con la spazzola e il phon a casa, perché la piastra -che pesava un mezzo chilo - la aveva solo il parrucchiere. Figuriamoci se andavamo in bisteccheria. La carrot cake stenta anche oggi a comparire nelle vetrine delle pasticcerie e stasera noi apriamo una confezione di cartone asciutta che ospita al suo interno una fetta di carrot cake multistrato e coperta di crema al burro e nocciole, dall’apparenza vagamente e gioiosamente yankee, per i fan dell’americanità - goffamente adagiata su un lato, senza il foglio di plastica a dividerla dal cartone. Pretendiamo pure la pellicola di plastica trasparente che la divida dal cartone? Suvvia, il romano è uno che magna e si accontenta. Non aspira a migliorare, men che meno allargare le sue vedute e se prova a confessare che è ambizioso, partono i vaffanculo dai suoi concittadini. La torta è grassa, la carota è il rimando nostalgico del nome, allappa in bocca e necessita di svariati sorsi di stura budella di Coca Cola del menù. Alla fine, avendo buttato le patate salate e la torta immonda, diamo uno zero a questa esperienza del Don’s. Aprendo la busta di carta dell’hamburger di Cucchi notiamo l’assenza di scatole e la presenza di sacchetti unti. Il panino ‘Ignorante’ è spartano e tozzo, occhieggia la falda di peperone bella profumata che te schiaffeggia, l’hamburger non è industriale e le patatine a cavatappo sono oliose e presagiscono una orgia finalmente goduriosa. Bene. All’assaggio l’hamburger dona sensazioni al palato belle piene, la carne è omogenea in bocca con il provolone e la cipolla che dominano e sto provolone che spintona coatto la papilla. Ammazza quant’è bono. Non ci sarà la scatola pariola ma se cena zozza deve essere, il panino merita. Dieci e lode. Molto triste invece il bun con la nutella, un sercio amaro che merita addirittura il secchio, va con Dios e pèntete. Vince a mani basse la premiata ditta Cucchi con i suoi macellari, la differenza del delivery la fa la qualità dei ristoranti proposti, e per venti onesti euro almeno magni. Dicono che nella scatola di Glovo ce poi trovà il mondo di Quark a battèri, a noi stasera bastava riposarci e mangiare per una volta senza pretese.
![Il Panino Ignorante di Cucchi Burgers con patate](https://crm-img.stcrm.it/images/42358179/2000x/20250208-151729708-2786.jpg)
![https://mowmag.com/?nl=1](https://crm-img.stcrm.it/images/42358142/2000x/20250124-135850779-2250.jpg)