In Africa la prima regola quando ti metti seduto all’ombra di un albero è alzare la testa per vedere che non ci sia un cocco in procinto di cadere. Ce lo ha detto Maurizio, il nostro amico manager del resort nel quale stiamo qui a Zanzibar. Un rumore secco, Rose Villain direbbe come un tuono, seguito da un colpo invece sordo, cioè un cocco che si stacca da una palma e arriva a meno di un metro da me, mentre me ne sto steso sul lettino del medesimo resort, Marina e Lucia che nel mentre sono andate a farsi dei massaggi nella Spa, lo dimostra inconfutabilmente. Sempre meglio guardare in alto, prima di stendersi. Francesco, nostro figlio piccolo, uno dei gemelli, ci ha detto tempo fa che nel mondo muoiono ogni anno più persone per la caduta di un cocco che perché aggredite da uno squalo. Non ci abbiamo creduto, non perché fosse incredibile, ma più che altro perché Francesco tende spesso all’eccesso. Sono però andato a cercare in Internet, e in effetti è vero, ogni anno, vado a memoria, quindi potrei sbagliare i numeri, muoiono circa quattrocento persone perché colpite in testa da un cocco contro neanche dieci sbranate da uno squalo. Ciò nondimeno io avrei più paura a avvicinarmi a uno squalo o anche semplicemente a fare il bagno in un mare frequentato da squali che a stare sotto uno albero carico di cocchi. E dire che la storiella di Newton e della mela che gli ha fatto scoprire la forza di gravità la conosco da che sono bambino, cioè è esattamente quando Steven Spielberg dirigeva al cinema Roy Schnider nel film Lo squalo, uscito nel 1975, quando avevo cinque anni.
Del resto, tutti tendono a citare fantomatiche statistiche che ci dicono che ci sono più possibilità di morire per incidente d’auto che d’incidente aereo, almeno tutti quelli che vogliono convincere qualcuno che ha paura di volare a volare, ma poi c’è sempre qualcuno che ha paura di volare mentre non c’è un qualcuno che ha paura di andare in auto, almeno a livello di statistiche rilevanti. Questa è una falsa partenza. Una falsa partenza che ci parla di natura, mentre oggi parlerò di musica, o anche di musica, perché è un giorno off, siamo rimasti al resort e io ho passato buona parte del tempo a cazzeggiare parlando con Maurizio, che è sì il manager del resort, ma ha un passato e immagino anche un futuro nel mondo del management musicale, come vi dicevo ci siamo conosciuti mentre seguiva le Zap Mama a Sanremo, loro li insieme ad Alex Britti, miei ospiti a Casa Piceno, la location che avevo creato per intervistare a tavola gli artisti in gara al Festival del 2018. Io non so nulla di musica locale, e ho scoperto che quella tradizionale si chiama Taraab, e che è piuttosto ripetitiva e appoggiata ovviamente su ritmi e nenie.
Io ricordo che c’è stato un passato remoto in cui così si chiamava una casa editrice indipendente, casa editrice non musicale, ma di libri, ma il taraab continuo a non conoscerlo, mi sono andato invece a ascoltare un po’ di afrobeats, che è un po’ una evoluzione dell’afrobeat di Fela Kuti e Tony Allen, tanto quanto la trap lo può essere del rap. So che messa così sembra che io stia lanciando una critica feroce all’afrobeats, perché la trap, almeno quella Italiana, fa in buona parte cagare, ma nei fatti Fela Kuti rimane inarrivabile, quando torno voglio assolutamente guardare il film che Daniele Vicari ha dedicato al genio nigeriano, Il mio Dio vivente. L’afrobeats, ho ascoltato qualcosa di Burna Boy, nigeriano famosissimo anche in tutto il resto dell’Africa, qualcosa di Wizkid, qualcosa di Davido, con quel nome che sembra la parodia di un qualche personaggio della Gialappa’s, tutta buona musica che non fosse per un uso preponderante della ritmica, nonostante l’assenza di influenze jazz, invece tipiche del genere generativo, l’Afrobeat, potrebbe suonare come un tentativo riuscito di americanizzare o hiphoppizzare l’Afrobeat. Non è comunque un caso che il genere stia attecchendo anche fuori dall’Africa, complici le comunità di migranti di seconda o terza generazione presenti in Europa. Abbiamo poi parlato anche d’altro, sempre in ambito musicale, ricordando eventi passati e ipotizzandone di futuri, cosa di più semplice di pensare al futuro in un luogo così profondamente fuori dal tempo? Qui nel resort, in questi giorni, sono passate persone da un po’ tutto il mondo, pochi italiani, e con molti di loro ci siamo trovati a scambiare quattro chiacchiere, come a volte capita quando si è in giro per il mondo, come in fondo ci è capitato di fare con i local che ci hanno fermato per appiopparci qualcosa ogni volta che abbiamo spinto il naso fuori di qui. C’è la fotografa di Bergamo spostata con un canadese, che vive nei Caraibi dopo aver girato il mondo, che ha passato del tempo a chiacchierare di fotografia con Lucia. Ci sono i due fratelli dall’Arizona, di origini tedesche, uno sempre chiuso in camera a leggere, l’altro spiaggiato a bordo piscina e desideroso di parlare italiano perché ha fatto il soldato con la Nato in Sardegna e aveva una fidanzata milanese, zona piazzale Biamonte, stando al cap 20154 che ricordava non so perché con affetto. Lui, a mia curiosa domanda, “dove abitate?”, curiosa perché il tipo mi ha detto che era la terza volta che passavo di qui nell’ultimo anno, mi ha riposto vagamente “dove lascio il mio cappello lì e casa mia”, aggiungendo “come nella canzone di Paul Young”, al che ho dovuto correggerlo dicendo, “Whenever I lay my hat (that’s my home) è di Marvin Gaye”, io sarò anche arrivato qui per la prima volta, ma di musica ne mastico più di una yankee e di un crucco, sia messo agli atti.
C’è la famiglia di taiwanesi che sono arrivati in hotel coi capelli di Re Julien in testa, anche loro evidentemente passati dalla cooperativa delle spezie ma con meno amor proprio di noi, famiglia che prima ha fatto una mezza scenata perché l’attesa per la cena era eccessiva, sei in Africa, santo Dio, poi, forse per un tentativo di riscatto, ha regato a delle bambine che erano fuori dal resort abiti e scarpette, con loro c’è una bambina e immagino che siano cose che non stanno più bene a lei, trasformando la spiaggia in un via vai di altre bambine e bambini che volevano qualcosa, con le prime a rotolarsi nella sabbia nel tentativo di prendersi le cose più belle, e alcuni bambini che, spavaldi, entravano e uscivano velocemente dal resort, tra il giocoso e la speranza di ricevere qualcosa. Vedere i ragazzi del personale allontanarli, alcuni di loro sono le villaggio e chissà cosa penseranno in queste occasioni, ci ha fatto un po’ strano, scatenando un certo grado di sensi di colpa.
Del resto, le stesse ragazze del personale che ora stanno col sorriso allontanando le bambine ieri sera hanno ballato scatenate con tutta la mia famiglia, me escluso, io facevo riprese, mentre gli Hilary More suonavano durante la cena, alcune pure durante il servizio; quindi, forse sono più paturnie nostre che fatti reali, ma ci sembra quasi di essere di troppo da queste parti, privilegiati che vengono qui esibendo un benessere che per altro non è neanche così sfacciato in patria. Riguardo al ballo, però, quel che va sottolineato, a parte appunto questa idea vincente di far ballare sia il personale a riposo che quello in servizio, per fare squadra, è che le ragazze non solo ballano non solo in modo incredibile, se io ora dicessi che hanno il ritmo nel sangue non sarei un colonialista di ritorno, ma semplicemente un coglione, ma lo fanno muovendo il culo in una maniera prodigiosa, alzando a ritmo una chiappa alla volta, come se fossero dotate di ammortizzatori idraulici tipo quelli delle macchinone dei video rap americani. Una poi, che ci è parsa quasi la capobanda, parlo di ballo, quando è partita Jerusalema è entrata zoppicando, salvo poi trasformare quello zoppicare in una serie di passi di danza paurosi, un vero fenomeno. Ho suggerito a Marina di andare a lezioni di questo tipo di ballo, altro che yoga. Lo avrete capito, una giornata di relax, qui, è comunque una girandola di input e di emozioni, perché ci sono ovunque bambini, storie da ascoltare, alcune, penso a quelle dei Masai, uno di nome William ha detto a Marina che per sposarsi, nel suo villaggio nel continente, deve andare nella foresta e tornare con una testa di un leone, vai a sapere se è vero, mentre un altro ci ha chiesto per quante mucche gli avremmo dato Lucia in sposa, non necessariamente vere.
Mica è un caso che alcuni scrittori siano venuti d queste parti per cercare ispirazione, anche se qui per altri motivi mi metto comunque nel mazzo. Penso al già citato Ernest Hemingway che è venuto in Tanzania (e Kenya), quando la Tanzania si chiamava Tanganika e non si era ancora liberata dagli inglesi e unita a Zanzibar, prima nel 1933, quando ha scritto Verdi colline d’Africa, e poi ci è tornato nel 1954, 1955 andando poi a scrivere Vero all’alba, uscito però nel 1999, postumo. Un posto temente evocativo che ne hanno scritto anche autori che non ci hanno messo piede, penso al solito e fantasioso Emilio Salgari, nel suo libro fantastico, fantascientifico addirittura La montagna d’oro/Il treno volante, ambientato a Zanzibar. Altri sono stati in Africa, ma non necessariamente qui. Alberto Moravia, per dire, ha scritto A quale tribù appartieni?, diario dell’Africa nera che ha preso spunto da un viaggio fatto con Dacia Maraini e Pier Paolo Pasolini. O Giorgio Manganelli che ha scritto Viaggio in Africa, storia di un viaggio nell’Africa orientale fatto nel 1970, libricino molto agile, come Ascoli Piceno esiste? Quello addirittura di sole sette pagine, a parte le cartoline di Tullio Pericoli.
E ancora, Diario africano di Doris Lessing, che crebbe da piccola in Zimbawe, e mi limito a citare quelli che ho letto negli ultimi anni. Un capitolo a sé meriterebbe Abdulrazak Gurnah, premio Nobel per la letteratura nel 2021, di cui Marina proprio in questi giorni sta leggendo Paradiso, Gurnah che qui a Zanzibar è nato. Ma io ancora non l’ho letto, quindi non saprei dire nulla di intelligente, e Marina è da qualche parte a rilassarsi, non vedo perché andarla a disturbare. Altri autori sono andati in altri sud, come Robert Louis Stevenson e i suoi Mari del sud, che si spinge fino alla Polinesia, il Paradiso terrestre. Gauguin, terra nella quale poi è rimasto a vivere finché non è morto per i suoi problemi ai polmoni, Anthony Burgess con I racconti malesi, Honolulu e altri racconti, Racconti dei mari del sud di Somerset Maugham. Andare altrove è sempre fonte di stimoli, di arricchimento, di comprensione. Discorso che vale ovviamente anche per la musica, perché oltre che agli artisti locali, come i già citati artisti afrobeat e afribeats, ci sono artisti occidentali arrivati qui per apprendere e condividere, oltre che per connettersi a altri suoni. Casi recenti le Mali session di Damon Albarn, che poi coi Gorillaz collaborerà con Fatoumata Diawara, e i lavori di Tamikrest e Dirt Music con Chris Eckman, già leader degli Walkabouts. Andando invece dietro nel tempo, lasciando da parte le incursioni nei suoni africani degli artisti afroamericani in ambito jazz, i nomi di San Ru e di John Coltrane dovrebbero essere più che sufficienti, ci sono i giganti del,rock che hanno deciso di confrontarsi con questo mondo sonoro così appoggiato su ritmo, diversamente dal nostro. In questi capisaldi sono My Life in Bush of Ghosts di David Byrne e Brian Eno, Ginger Baker e Fela Kuti, Dr John con il suo seminale Remedies, 1970, Graceland di Paul Simon, seppur poi accusato di appropriazione culturale, IV di Peter Gabriel, Talking Timbuktu di Ali Farka Touré e Ry Cooder Talking, del 1994, i soliti anniversari tondi. Stesso anno in cui per altro è uscito il brano che ha fatto esplodere a livello mondiale Youssou ‘Ndour, in compagnia con la figlia di Don Cherry, Neneh, nella hit Seven Seconds, mix tra Africa e rap.
Nel 2017 Joss Stone, in precedenza coinvolta nella superband SuperHeavy con Mick Jagger, Dave Stewart ex Eurythmics, al compositore indiano R. Rahman e Damian Marley, entra in un altro supergruppo, il Project Mama Earth, col suo produttore Jonathan Shorter, col producer britannico di origini indiane Nitin Sawhney, con Jonathan Joseph e col polistrumentista camerunense Etienne M’Bappè. Insieme incideranno un album di musica fortemente influenzata dalla cultura africana dedicato a Madre Natura. Chi invece volesse mai vedere come tra il nostro sud e l’Africa corre un legame stretto recuperi anche velocemente la doppia raccolta Pelle differente del mio fratellone Enzo Avitabile, dove al suo fianco troviamo Manu Dibango, Daby Tourè e Toumani Diatabe. Alla faccia che oggi mi dovevo rilassare. Oh, voi occhio al cocco, sempre guardare in alto, prima di sedersi sotto un albero.