Carlos Alcaraz ha incassato la sua prima sconfitta a Indian Wells dopo tre anni, uscendo in semifinale contro Jack Draper con il punteggio di 6-1, 0-6, 6-4. Un risultato che, di per sé, non è uno shock: il britannico lo aveva già battuto sull’erba del Queen’s Club, e in California ha confermato di essere un avversario ostico. Ma più del punteggio, a sorprendere è stata la reazione di Alcaraz nel post-partita, con un’onestà brutale che potrebbe trasformarsi in un’arma per i suoi rivali. Il tennis è uno sport dove la dimensione mentale conta tanto quanto quella tecnica. Matteo Berrettini lo aveva sottolineato più volte, spiegando come il successo nel circuito dipenda non solo dai colpi, ma dalla capacità di gestire la pressione, dominare l’ansia e non concedere punti deboli agli avversari. Proprio su questo fronte, Alcaraz ha, forse, fatto un passo falso. “Ero nervoso tutto il giorno”, ha ammesso nella conferenza stampa post-match. Un’affermazione che, detta così, potrebbe sembrare normale, ma che nel tennis è quasi un’ammissione di colpa. Mostrare le proprie fragilità significa consegnare agli avversari una chiave per metterti in difficoltà.

Alcaraz non ha parlato di errori tattici, né di un avversario che lo ha sorpreso. Ha parlato di ansia, di nervosismo, di insicurezza. Ha raccontato di aver trascorso la giornata preoccupandosi di Draper, di essersi allenato male, di non aver sentito i colpi già dal riscaldamento. “Non mi sono allenato bene. Non mi sentivo bene in campo. Anche nel riscaldamento sbagliavo molto, non sentivo i miei colpi. Per questo parlavo con Juan Carlos (Ferrero) in bici: ero un po’ arrabbiato con me stesso per il modo in cui mi stavo preparando alla partita”. Più che di una sconfitta tecnica, sembra parlare di una sconfitta mentale. Alcaraz non ha perso perché Draper ha giocato meglio, anche se il britannico ha sicuramente meritato la vittoria, ma perché la sua testa era altrove. “Dico sempre che devo concentrarmi su me stesso, sul mio gioco. Ma oggi ero più preoccupato del livello di Draper che del mio. Quando pensi più all’avversario che a te stesso, allora hai un grosso problema”. Ed è qui che il campanello d’allarme diventa più forte.

I campioni costruiscono un’aura di invincibilità, trasmettono la sensazione di essere intoccabili. Djokovic e Nadal, per esempio, non parlerebbero mai pubblicamente di nervosismo o insicurezza, perché sanno che il tennis è anche un gioco di percezioni. Se il tuo avversario ti vede come una roccia, partirà con meno sicurezze. Ma se inizia a credere di poterti battere, la partita cambia completamente. L’onestà di Alcaraz è una delle ragioni per cui è così amato dai tifosi: è autentico, diretto, non si nasconde dietro frasi di circostanza. Ma questa trasparenza potrebbe diventare un problema. Ora tutto il circuito sa che Jack Draper lo mette a disagio, che ci sono partite in cui la sua testa lo tradisce, che può essere battuto non solo sul campo, ma già prima ancora di scendere in campo. Nel tennis, dove la psicologia è tutto, queste sono informazioni preziose.
“Nel tennis non vince chi gioca meglio, ma chi sa gestire meglio i momenti”, aveva detto Berrettini. Alcaraz, in questa semifinale, ha dimostrato che la sua gestione mentale non è ancora a livello dei mostri sacri del circuito. La domanda ora è: gli avversari sapranno approfittarne? Quando lo spagnolo tornerà in campo, è probabile che molti proveranno a toccare queste corde, a metterlo sotto pressione fin dall’inizio, a fargli sentire il peso del match. Perché, se c’è una cosa che Alcaraz ha involontariamente insegnato ai suoi rivali, è che la sua corazza non è ancora indistruttibile.