Si chiama da Silva, il padre di Ayrton Senna. E già in questa storia, partendo dal nome, c'è qualcosa che necessita una spiegazione. Perché dopo le prime stagioni sui kart, l'Ayrton poco più che bambino, prese una decisione: iniziare a correre con il cognome della madre, Senna, e non più con quello del padre. "Di da Silva ce ne sono tanti - spiegò poi il campione brasiliano - di Senna uno solo". Il cognome del padre infatti era piuttosto comune in Brasile, al contrario di quello della madre Neide, di origini italiane.
Un confronto generazione che prende una strada strana, contorta, già a partire dalla cosa più semplice. Il nome che di solito unisce, che spiega senza il bisogno di spiegazioni, ma che nella monumentale epopea del pilota più famoso di tutti i tempi non può essere solo un cognome.
Nico Rosberg è il figlio di Keke Rosberg, Jacques Villeneuve è il figlio di Gilles Villeneuve, Max Verstappen è il figlio di Jos Verstappen, anche Lewis Hamilton - figlio di un nessuno per la Formula 1 - appartiene alla storia di Anthonie Hamilton, un padre senza il quale Lewis non sarebbe diventato chi è. Che per portarlo sui kart, per farlo conoscere, è stato costretto a fare tre lavori, sacrifici che il britannico ricorda come cicatrici che lo hanno formato, e da cui a un certo punto della sua vita si è dovuto staccare, per cercare una sua identità.
Sono i padri del motorsport, figure messe agli angoli delle biografie, disegni senza contorni che si assomigliano sempre: appassionati, arrabbiati, assenti o troppo presenti che siano. Sono quelli che, quei bambini destinati alla grandezza, li hanno portati sui kart per la prima volta, che hanno coltivato una altrui passione come fosse loro, aprendo una strada da percorrere altrimenti impossibile da immaginare.
Max Verstappen che viene abbandonato in autostrada dopo aver perso un mondiale sui kart, a soli 15 anni, e che ammette "quando sono arrivato in Formula 1 tutti mi hanno detto che per me sarebbe stata dura, ma io avevo già vissuto di peggio con mio padre". Charles Leclerc che il suo, di papà, lo perde troppo presto, nel pieno della stagione che gli consegnerà il titolo di campione in Formula 2, aprendogli le porte per la Formula 1. Che al padre, poco prima di morire, mente, dicendogli di aver firmato un contratto con la Ferrari per il 2019. Bugia che, quel ragazzo troppo grande per la sua età, ha fatto diventare realtà, arrivando dopo un anno a firmare veramente quel contratto bugiardo, e diventando stella di Maranello proprio nel 2019.
Nico Rosberg che vincendo il mondiale, nel 2016, si ritira dalla Formula 1 come chi si libera di un peso, dopo aver dimostrato di potercela fare, di poter essere anche lui un campione del mondo come il padre Keke. E Jacques Villeneuve che arriva a prendere la drastica decisione di non rispondere più a nessuna domanda sul padre, esasperato dalla pornografia del dolore di chi - a tutti i costi - voleva trovare un collegamento tra lui e il padre Gilles.
Storie che si assomigliano tutte, anche quelle di chi è cresciuto senza l'ombra di un babbo da imitare, eguagliare e superare. I padri del motorsport sono ingombranti anche quando non sanno di esserlo, anche quando già in partenza sono più piccoli dei figli, pilastri insormontabili di questo sport.
Così era Milton da Silva, scomparso all'età di 94 anni questo mercoledì, 27 anni dopo la morte di Ayrton. Un padre imprenditore, facoltoso brasiliano che al figlio ha garantito una vita, e una prospettiva di carriera, che la maggioranza dei brasiliani non avrebbe osato chiedere. Un padre disconosciuto nel nome, abbandonato da chi ricerca un'identità propria, di chi ha sempre voluto essere unico, diverso da chiunque altro. Un padre schivo ma, lo racconta benissimo Giorgio Terruzzi in Suite 200, fin troppo presente nelle scelte di vita del figlio, fino all'ultimo, fino all'intimità personale.
Un padre come molti, diverso dagli altri ma poi, alla fine, uguale a tutti. E che meriterebbero molto di più di starsene agli angoli di queste storie.