Abbiamo perso il calcio. Da un tramonto berlinese di fine giugno abbiamo portato a casa la più devastante delle certezze. L’Italia era stata appena surclassata dalla Svizzera, senza che vi fosse stato nemmeno un istante della partita da cui trarre segnali che potesse andare diversamente. E questo passaggio ha messo il sigillo della verità definitiva a uno stato delle cose che ostinatamente si è cercato di rimuovere: il calcio italiano non è più sull’orlo dell’abisso, perché l’abisso l’ha percorso tutto intero in verticale e adesso cerca di distinguerne l’orlo da quaggiù. Senza nemmeno avere la minima idea di come cominciare una risalita che sarà difficilissima. E con la beffa di quegli spot pubblicitari che continuavano a circolare nel post-partita e hanno come protagonisti “mister Spalletti” e i suoi eroici cavalieri. Trasformati nel giro di un paio d’ore da testimonial in pestimonial, garanti d’insuccesso per qualsiasi prodotto o servizio si pretenda di vendere sul mercato. Un insuccesso che ormai è diventato la cifra costante del nostro movimento calcistico. E che col 29 giugno 2024 segna il punto più basso della sua storia. L’Anno Sottozero.
La decrescita felice
Fra i tanti esercizi in cui ci si è cimentati dopo l’eliminazione c’è stato quello dell’analogia con altre, storiche disfatte della nazionale azzurra: dalla Corea (del Nord) del 1966 all’altra Corea (del Sud) del 2002, dalle due eliminazioni immediate che sono state collezionate in occasione delle due ultime partecipazioni alle fasi finali dei mondiali (Sud Africa 2010 e Brasile 2014), alle successive mancate qualificazioni (Russia 2018 e Qatar 2022), fino alla disfatta dei Mondiali di Germania Ovest 1974. Ma alla fine della ricognizione arriva la certezza che nulla pareggia la figuraccia di Berlino. Perché da ieri sappiamo che pure la Svizzera (con tutto il rispetto) è un’avversaria insormontabile per la nostra nazionale. Non la Francia, o la Germania, né l’Argentina o il Brasile. La Svizzera. E questa certezza è arrivata in capo a due settimane desolanti, in cui è stata forte la sensazione di essere la squadra peggiore delle ventiquattro finaliste. Perché anche quelle meno attrezzate hanno mostrato una minima identità di squadra e la dignità che serve per tenere il campo dal primo all’ultimo minuto. Ciò che in nessun momento delle quattro partite giocate in Germania è stato messo in mostra dalla squadra azzurra. E dal suo allenatore, ingaggiato e presentato come se toccasse a lui svolgere il ruolo da fuoriclasse ma presto convertito nel principale fattore di destabilizzazione causa limiti emotivi e idee confuse. L’effetto di tutto ciò è stata una squadra piatta, molliccia, fatalista. Scarsa non soltanto sul piano tecnico, ma anche sul piano delle risorse mentali e morali. Uno stato di bancarotta tecnica che è soltanto l’epifenomeno di uno stato di bancarotta identitaria. In queste ore si usa a profusione la parola rifondazione. Che non è un inedito e comunque è più facile a dirsi che a farsi, visto lo sfacelo.
Non è (più) un paese per calciatori
Se davvero si vuol pensare di rifondare, allora bisogna dire le verità per intero. Vengono reclamate, pressoché all’unanimità, le dimissioni del presidente Figc, Gabriele Gravina, e del commissario tecnico Luciano Spalletti. Richiesta legittima e decisione che, viste le proporzioni della disfatta, sarebbe anche doverosa. Ma come la mettiamo con tutti gli altri soggetti che sono politicamente responsabili di questo sfascio del calcio italiano? A partire da una Lega di Serie A litigiosissima, fatta di club produttori di debito ma ancora convinti di essere produttori di ricchezza. Per continuare con la Lega di Serie B che in questo momento è un campionato incapace di darsi una dimensione, sospeso fra l’essere una A2 e un C d’eccellenza. E concludere con la Lega Pro, che ormai si sta svendendo alle seconde squadre dei club di A, e con una Lega Dilettanti che pare svegliarsi soltanto quando c’è da far pesare sugli equilibri federali l’enorme giacimento di voti. Dovrebbero andare a casa tutti, andrà a finire che non lo farà nessuno o quasi. E intanto che tutti cercano di imputare a altri le colpe proprie, si scopre che il calcio non è più in cima ai pensieri degli italiani. E che altri sport danno molti più motivi per guardare con orgoglio alla bandiera tricolore. Il tennis e l’atletica, il cui boom recente si aggiunge ai trionfi del nuoto e ai risultati garantiti da discipline come pallavolo e pallanuoto, capaci di rimanere ai vertici anche nelle fasi in cui non arrivano i successi. E poi c’è la lunga lista degli sport di cui ci si ricorda soltanto in occasione delle Olimpiadi. Che sono giusto alle porte e si apprestano a oscurare una volta di più un calcio in sfacelo. Quel calcio convinto ancora di essere “lo sport leader” del Paese. E ormai pronto a portarsi questa convinzione nella tomba.