Oggi è l’uomo dei record. Il tennista con più Slam della storia, il numero uno capace di riscrivere le regole del gioco, dentro e fuori dal campo. Ma Novak Djokovic non ha dimenticato da dove è partito. E soprattutto non ha dimenticato, perché lo ha scoperto solo dopo, cosa ha fatto suo padre per permettergli di arrivare fin lì. In un’intervista inaspettata e personale con l’ex ct croato Slaven Bilic, Djokovic ha raccontato per la prima volta uno degli episodi più drammatici della sua infanzia: dietro al suo primo viaggio negli Stati Uniti, quello che avrebbe segnato l’inizio della sua carriera, c’era un gesto estremo compiuto dal padre Srdjan. “All’epoca non avevamo soldi. Per un’impresa così grande come il viaggio negli Stati Uniti, per me e per lui, per noi due di Smirša, bisognava stanziare una somma che, all’epoca, ammontava a circa cinquemila dollari”, ha raccontato. “E noi non li avevamo”. Srdjan si rivolse allora agli usurai, “a quei famosi criminali che all’epoca erano gli unici disposti a prestarti dei soldi ‘a fiducia’, ma con un interesse altissimo”, dice Djokovic. “Gli chiesero: ‘Hai fretta?’ Lui rispose di sì. E allora gli dissero: ‘Bene, 30% di interesse’. E lui accettò. Con il sorriso. Senza dirmi nulla”.

Solo anni dopo, Novak ha scoperto tutto. “Non voleva caricarmi di ansia o sensi di colpa. Ha fatto tutto in silenzio, col sorriso sulle labbra. Era un rischio enorme. Ci sono state situazioni difficili, anche inseguimenti in auto. Ma ha fatto tutto questo per me. Per il mio sogno”. Un sogno di chi, però, oggi, rischia di non avere più la stessa fame. Almeno secondo chi lo conosce. Dopo l’uscita in semifinale al Roland Garros contro Jannik Sinner, Patrick Mouratoglou, ex coach di Serena Williams, ha usato parole pesanti per descrivere il campione: “Non ho visto il vero Novak. Ho avuto la sensazione che abbia accettato il dominio di Sinner. E questo non è lui”. Djokovic aveva battuto Alexander Zverev nei quarti, ma contro Sinner si è spento. “Fisicamente è lì, tecnicamente è lì. Ma non basta. Per vincere certi match serve la mentalità. E io non l’ho vista. Una volta avrebbe fatto di tutto per vincere. Non avrebbe accettato la sconfitta. Avrebbe distrutto racchette, si sarebbe infuriato. Ora sorride alla panchina, si gode il momento. Ma questo non è il Djokovic che conoscevamo”.

Secondo l’allenatore francese, a mancare non è il tennis, ma l’ossessione. Quella forza psicologica che nasceva dal confronto diretto con Federer e Nadal, dalla voglia di dimostrare di essere il più grande. “Ora quel capitolo si è chiuso. È già considerato il migliore della storia. Ha raggiunto l’Olimpo. Ma proprio per questo ha perso la rabbia. E senza quella, non sei più una bestia. Sei un uomo normale, per quanto eccezionale. Il suo scopo era combattere per dimostrare chi fosse il più grande di tutti. Ora non è più una questione di vita o di morte”, ha aggiunto. “Guardate la semifinale del Roland Garros contro Sinner, e poi guardate la finale olimpica contro Alcaraz di dieci mesi fa. In quell’occasione era un toro, era pronto a tutto pur di vincere. A Parigi invece sembrava... contento di esserci. Non lo riconosco”. Eppure, il tempo per rispondere c’è ancora. Djokovic tornerà in campo a Wimbledon, con l’obiettivo di prendersi il 25° Slam, un traguardo che nessuno ha mai raggiunto. Ma dovrà decidere come affrontare il torneo perché, come ha detto Mouratoglou, “giocare una grande partita è impossibile se non vuoi morire pur di vincerla”. Intanto, lui, l’uomo partito da Smirša, figlio di un padre che si rivolse agli usurai pur di mandarlo in America, è ancora lì. Con un’eredità da difendere. Eppure, un po’ tutti gli amanti del tennis se lo chiedono: ce n’è ancora, dentro di lui, di quella fame che un tempo lo rendeva invincibile?