In un durissimo articolo pubblicato sul National Review, la giornalista Abigail Anthony ha smontato senza mezzi termini il comportamento dei media mainstream e dei fact-checker che hanno cercato di riscrivere la realtà biologica dietro il caso Imane Khelif. Durante le Olimpiadi di Parigi 2024, Khelif ha affrontato e battuto l’italiana Angela Carini, ritiratasi dopo soli 46 secondi di incontro. Ma il punto non era (solo) la sconfitta: Khelif era già stata esclusa nel 2023 dai Campionati mondiali dell’International Boxing Association dopo che i test genetici avevano rilevato la presenza di cromosomi XY.
La posizione di Anthony è netta: “Le categorie femminili dovrebbero essere riservate alle donne biologiche, e tutte le prove disponibili suggerivano che Khelif e Lin [l’altra atleta esclusa, ndr] fossero maschi”. Come sottolinea, la dichiarazione dell’Iba all’epoca era chiara: «I test del dna hanno dimostrato che avevano cromosomi XY» e che avevano «tentato di ingannare i loro colleghi spacciandosi per donne».
Quasi un anno dopo, un documento trapelato conferma quanto già noto: i test eseguiti da un laboratorio accreditato a Nuova Delhi riportano che “l’analisi cromosomica rivela un cariotipo maschile”. Tuttavia, nel 2024, numerosi articoli di fact-checking si sono affrettati a dichiarare Khelif una donna “non transgender” e “non intersessuale”. Per Anthony, questa narrazione rappresenta una manipolazione ideologica dei fatti: “Sebbene gli esempi relativi a Khelif siano numerosi, non ho bisogno di citarli tutti qui per dimostrare che i media mainstream pubblicano propaganda con il pretesto del fact checking”.

Il bersaglio polemico principale è proprio l’industria del fact-checking, che Anthony accusa di confondere il lettore sotto il velo dell’autorità epistemica. Lo dimostra bene con l’analisi dell’articolo pubblicato da USA Today dal titolo "Fact check sulla lottatrice algerina Imane Khelif, dsd, biologia e pugilato olimpico", che affermava senza riserve: «Khelif è una donna». Tra le fonti citate: GLAAD e InterACT, organizzazioni di attivismo lgbtqi+ che, evidentemente, non possono essere considerate neutrali sul tema. Come fa notare con sarcasmo la giornalista. Abigail Anthony estende il ragionamento al paradosso comunicativo: chi denuncia i dati biologici viene accusato di “transfobia”, mentre chi li nega viene elevato al rango di garante della verità. Il rischio, avverte, è che il termine “fatto” perda significato, così come è già successo per la parola “donna”.
Il quadro delineato negli Usa non è affatto lontano da quanto accaduto anche in Italia. Come ho scritto, anche qui i fact-checker hanno dimostrato la stessa debolezza, nascosta sotto il tappeto di uno stile apparentemente consequenziale e un tono quasi pedagogico (Ora ti spiego come stanno davvero le cose…). Il caso Khelif, insomma, non è solo una questione sportiva o biologica. È un simbolo di un conflitto più ampio tra realtà e percezione, tra dati e ideologia, tra giornalismo e narrazione. E la domanda che resta è semplice quanto urgente: possiamo davvero fidarci dei fact-checker?
