Nasser Yesfah, l’ex manager di Imane Khelif, ha dichiarato che la pugile si prenderà una pausa dalla boxe per via delle continue polemiche sul suo sesso, iniziate con la partecipazione (e poi vittoria) alle Olimpiadi di Parigi 2024. Non le hanno fatto godere la vittoria, né le Olimpiadi, né il dopo Olimpiadi. Insomma, questo mondo marcio, bigotto e razzista l’avrebbe spinta ad abbandonare la sua grande passione. È questa la versione dei buoni. Ma è falso. La notizia gira, ripresa da varie testate, ma in assenza di dichiarazioni della diretta interessata è difficile capire se davvero smetterà di salire sul ring. Quello che è certo, però, è che la colpa, in caso, non può essere di chi ha fatto domande, ma sua e della squadra algerina, che da un anno si rifiuta di dire la verità sul caso sportivo più controverso dai tempi di Caster Semenya. Sarebbe bastato un test per fermare qualsiasi polemica. I sessi sono due e lei avrebbe potuto togliere ogni dubbio a chi la criticava dimostrando di avere un cariotipo femminile. Gli unici presunti risultati che abbiamo riguardo al suo sesso, invece, sono quelli forniti dall’International Boxing Association (Iba), che nel 2023 la squalificò perché la qualificò come “maschio biologico”, apparentemente confermati da un documento reso pubblico da Dr. Lal Path Labs. Chi nega la validità o la neutralità di queste fonti dovrebbe spiegare su cosa si basa l’arringa pro Khelif. Sull’immaginazione?

Forse le polemiche non sono il vero motivo per cui Khelif potrebbe abbandonare la boxe. La World Boxing Association, ente riconosciuto anche dal Comitato olimpico (Cio), ha annunciato una nuova Sex Eligibility Policy, confermando che per i mondiali di quest’anno ci saranno dei test sul sesso obbligatori. È un caso che Khelif rinunci a gareggiare proprio quando le istituzioni sportive le chiedono di dimostrare di non essere un maschio biologico? Le questioni di principio contano poco. Perché una persona dovrebbe rinunciare alla sua carriera pur di non fare un semplice test del dna, per altro non invasivo né complesso? Basterebbe un tampone salivare, per iniziare. Khelif, come probabilmente altre atlete meno note, ha potuto godere dei frutti di una decisione ingiustificabile presa del Cio nel 1999, quando scelse di vietare i test del dna per accedere alle competizioni. In questo modo si è aperta la strada alla più importante ingiustizia ai danni delle donne nel mondo sportivo, ovvero la possibilità di far gareggiare degli uomini contro delle donne. Ora, finalmente, le cose potrebbe cambiare.

Purtroppo i giornali non aiutano. Fin dall’inizio i quotidiani più autorevoli hanno propinato versioni di questa storia senza fondamento, parlando di Sindrome della bella donna, di iperandrogenismo e altre condizioni che riguardano donne con livelli alti di testosterone o forme più o meno evidenti di disturbo dello sviluppo sessuale femminile. Il Corriere, dando la notizia del ritiro di Khelif, parla proprio di iperandrogenismo, “una condizione che comporta livelli più elevati di ormoni maschili nel sangue”. Ma il problema di Khelif non è mai stato il testosterone, bensì il sesso. E il disturbo dello sviluppo sessuale che potrebbe avere non riguarda il sesso femminile, ma il sesso maschile (il deficit della 5-alpha reduttasi). In molti si sono impegnati per evitare di accettare l’evidenza. Scrittrici in odore di Strega, giornalisti popolarissimi, fact-checker, un intero universo che, di fronte alle contraddizioni delle proprie battaglie, non è riuscito ad attenersi ai fatti, e cioè, alla meglio, l’assenza di prove che potessero dissipare i dubbi su Khelif; e, alla peggio, il fatto che Khelif abbia sempre saputo di essere un maschio biologico.
