La Juventus ha pareggiato ancora, il quarto pari consecutivo, e il copione è sempre lo stesso, o sempre simile: primo tempo regalato, reazione isterica, gol rocamboleschi, sprechi sotto porta e crollo difensivo. Contro il Villarreal, in Champions, si sono visti ancora gli avversari che palleggiano dentro l’area bianconera come se fosse il cortile di casa, poi il ribaltamento improvviso e quasi farsesco – una rovesciata da figurina Panini artigianale di Gatti e il lampo di Conceição dopo un regalo suicida degli spagnoli – infine il buco colossale su corner al novantesimo, la difesa a zona che si accartoccia come un ombrello bucato, la partita che si chiude col veleno in gola e il solito senso di impotenza e di “è andata così”, “la prossima volta andrà meglio”, “abbiamo fatto quel che era possibile”.
Non è un caso isolato. È un pattern. Una liturgia del fallimento o del galleggiamento che trasforma ogni partita in una roulette: o l’avversario sbaglia, o il portiere salva, o il Vlahovic o l’Yildiz di turno nella propria giornata bimestrale di grazia inventa l’impossibile. La Juve non gioca, non costruisce: sopravvive. E questo è il primo dato che fa infuriare i tifosi, più dei risultati in sé: non c’è mai un senso di controllo, mai la sensazione che la squadra sia padrona del proprio destino. È la Juventus che rincorre, che si abbassa, che spera. Tudor lo ha detto chiaramente, senza nemmeno accorgersi dell’autogol retorico: “Prendiamoci questo punto, il Villarreal qui è difficile da affrontare”. Una frase da provinciale, non da allenatore della Juventus che peraltro per grazia ricevuta vinceva 2-1. Eppure detta con naturalezza, come se la riduzione dell’ambizione fosse parte del nuovo corso. Dalla Juve che deve sempre vincere e fino alla fine alla Juve che si accontenta. Non è solo un problema tecnico, è una resa culturale, il ridursi a farsi annichilire dalla presenza di giocatori qualunque come Buchanan e Mikautadze del Villarreal o Orban del Verona.

I tifosi hanno ragione? In parte sì, in parte no. Perché i numeri non sono ancora da disfatta totale: la Juve non è lontana dalla vetta in campionato, è ancora relativamente viva in Champions (anche se la prossima tappa è Madrid, dove il presagio contro il Real è quello di uno zero punti già scritto). Ma la verità è che senza gli exploit casuali – il tiro da centrocampo di Adzic (controbilanciato dal suo errore fatale contro l’Atalanta), la rovesciata da Cristiano Ronaldo dei poveri di Gatti, l’improvvisa reincarnazione della versione in maglia viola di Vlahovic da subentrato – i punti sarebbero ancora meno. Senza le parate di Di Gregorio e Perin (che in altre fasi della partita hanno anche complicità con le reti incassate), senza gli errori clamorosi degli avversari, i gol subiti sarebbero ancora di più. Questa Juventus è una squadra che vive di eccezioni, di episodi irripetibili, di lampi che non costruiscono una strada. E quando non arrivano, cade o si blocca o sembra non essere nemmeno uscita dagli spogliatoi. Sempre.
Poi c’è il nodo Tudor. Scelto in corsa dopo Thiago Motta, per svoltare in chiave di “identità” e “juventinità”, confermato in estate per assenza di alternative che giustificassero l’ennesimo cambio (vedi Conte rimasto al Napoli e Gasperini che ha preferito la Roma), in realtà appare come la copia detratta di ogni glamour (e, unico suo pregio rimasto per molti tifosi, senza nessun passato interista) del tecnico precedente: stesso integralismo, stesso modulo imposto a dispetto della rosa, stesso masochismo tattico che porta a giocare a due in mezzo al campo senza avere né piedi né polmoni per reggere. Turnover frenetico, attaccanti in panchina, centrocampo sempre scoperto, testardaggine tattica suicida. La Juventus vive con sei giocatori offensivi potenzialmente titolari a disposizione e gioca come se non ne avesse nemmeno uno. Preferisce ridursi al lumicino in mediana e abbassarsi passivamente dietro, difendendo con sistemi che non funzionano. “Non si può prendere gol così”, ripete Tudor dopo il pareggio di testa dell’ex Veiga uguale ad altri gol già presi così. Ma chi dice ai giocatori di difendere a zona sui corner? Chi dice o permette alla squadra di abbassarsi sempre? Chi è che, come Motta prima di lui, non riesce a incidere sul dna di un gruppo che cade sempre nei medesimi abissi?

Koopmeiners è l’emblema dell’accanimento terapeutico: da un anno disastroso, ma ancora titolare, ancora esposto, ancora incapace di incidere. David, Openda, lo stesso Vlahovic (oltre ad almeno uno tra Conceição e Zhegrova, se non entrambi, con Yildiz di contro sempre spremuto e quindi spesso non lucido né produttivo) restano spesso in panchina, sacrificati per preservare un equilibrio che non esiste. Così la Juve si ritrova fragile dietro, sterile davanti, e a metà campo un deserto che Thuram (a sua volta poco impattante nelle ultime uscite) da solo non può irrigare, e che il vituperato Locatelli può solo puntellare.
Eppure, nel coro delle colpe, c’è un grande assente. Una rimozione collettiva che ha del patologico. Andrea Cambiaso. Ogni volta sbaglia o è deficitario, ogni volta viene giudicato con indulgenza. La sua partita contro il Villarreal è stata un compendio di orrori: leggerezza sul gol dell’1-0, cross sbagliati in serie, condizione fisica (o assenza di voglia?) imbarazzante a inizio ottobre, sostituito perché già senza gambe. Eppure i voti dei giornali si fermano al 5,5, quasi con pudore. Come se dire la verità su Cambiaso fosse un tabù. Forse perché nove mesi fa si raccontava che venderlo per 60 milioni al City (un’offerta verosimilmente inventata dai giornali stessi) sarebbe stata un errore, mentre ora si faticherebbe a venderlo a 6. Forse perché è italiano, forse perché è “amico”. Ma oggi Cambiaso è un buco tecnico e fisico non dissimile da Koopmeiners, anzi: perde palloni sanguinosi, si accentra a sproposito, lascia varchi difensivi, non ha più gambe né cattiveria. È un giocatore che sembra vivere di un credito infinito, mentre la squadra non può permetterselo. Se Gatti viene crocifisso per l’errore sul gol finale (dopo aver segnato il gol della vita, a un millimetro da decapitare il difensore avversario e farsi quindi fischiare fallo in attacco), se David viene ridicolizzato per il gol divorato a porta vuota, perché Cambiaso viene risparmiato e anzi ci sono giornali che vedono “qualche segnale incoraggiante”?

Ma al di là dei singoli (che però, sommati, sono tutto), la verità è che questa Juventus non sa più vincere. Non sa gestire, come ha detto Marchisio: subisce, si abbassa, si confonde. Non ha la spina dorsale che Llorente ricordava come fondamentale dieci anni fa (sottolineando come quell’ossatura fosse italiana, per fare da garante anche emotivo). In fondo la Juventus di oggi è tutta qui, una squadra che continua a cambiare giocatori, allenatori, assetti, ma finisce sempre nello stesso punto: niente certezze, niente vittorie, solo l’ennesimo pareggio, solo la continua discesa verso la mediocrità.
E se davvero questa è la nuova normalità, allora i tifosi hanno ragione a chiamarlo disastro. Perché il disastro non è pareggiare, non è sbagliare uomini o moduli, non sarebbe nemmeno perdere dopo aver giocato per vincere. Il disastro è quando la Juventus smette di sembrare la Juventus. E questo, ormai, succede da troppo tempo.