Sono passate due settimane, il tempo che mi serviva per decidere se scrivere il pezzo. Nel mentre sono stato in Albania in missione per conto di Dio, ho visto il GP di Barcellona dal televisore e ho continuato a pensare al Mugello. Quando mi sono ritrovato a scrivere di notte, dal telefonino, ho capito che era la cosa giusta da fare: Moreno Pisto, che dirige MOW in modo che assomigli il più possibile a una barchetta in mezzo alla tempesta, dice che per i pezzi buoni serve soprattutto l’urgenza di farli, il bisogno. Probabilmente ha ragione.
Il GP d’Italia al Mugello sarà stato il primo senza Valentino Rossi, il primo vinto da Pecco Bagnaia, il primo con una crisi di pubblico. È stato, però, anche il primo per me, da giornalista accreditato per tutto il paddock, che quel circuito lo guardo dal prato della Casanova-Savelli dal 2008.
Mio padre si era separato da poco, era tornato a vivere a Firenze lasciando a Venezia mia madre, me e mio fratello. I rapporti erano tesi e difficili. Anzi, forse qualcosa di peggio. Lui, generoso ma all’antica quantomeno nei principi, ha 40 anni esatti più di me e una vita scandita da viaggi di lavoro, studi, conferenze e contraddizioni. Tutte cose, insomma, aride e fastidiose per un quindicenne. Non so come gli fosse venuto in mente di portarci al Mugello, sta di fatto che un giorno prese un circolare prato per ognuno di noi. Ricordo la sveglia alle 5, il freddo delle mattine primaverili, il terriccio umido e la gente che scavava buche con la pala per ricavarsi uno scalino. E poi un casino di moto bellissime che a me trasmettevano le stesse emozioni, fascino e mistero, delle ragazze: attraenti, spaventose e, naturalmente, irraggiungibili.
Mio fratello ed io arrivavamo a Firenze in treno il venerdì, dopo la scuola, per stare tutto il weekend. Uno ogni due, come aveva stabilito il giudice, per tutto l’anno. Era sgradevole, eravamo in guerra, quelle domeniche però rappresentavano una tregua, il santuario del compromesso: si, il fine settimana a Firenze poteva essere drammatico, ma in quella situazione era impossibile tenere il broncio. Era Woodstock, un vero zoo. Mio padre, il toscano sempre in bocca fino al mese scorso, portava le ciliegie e preparava i panini, a volte anche la Coca-Cola che però si scaldava subito e finivi per mandarla giù calda. Era la nostra festa, tanto che da quella volta ci siamo andati praticamente tutti gli anni. Abbiamo visto le sportellate tra Simoncelli e Pasini sotto il diluvio, Vale col casco che urla e che vince la sua ultima gara lì, Vale che rompe il motore nel 2016, Marquez che cade nel 2018, Petrucci che vince nel 2019. Li, dalla collina della Casanova, vedevamo il grosso parcheggio del paddock e, più in là, i camion scintillanti delle tre categorie. Negli anni l’ho detto più di una volta: prima o poi, lì dentro, ci entro pagato e non pagante. Alla fine è successo davvero, così ho capito che debuttare al Mugello è speciale anche se ci vai solo per scrivere.
Al circuito ci arrivo giovedì poco prima di pranzo. Ho il pass per il parcheggio e una Panigale V2 gentilmente concessa da Ducati che lascio proprio lì, sotto alla Casanova. Scendo in fretta le scale che portano al paddock con il passo di uno che i GP li butta giù come ansiolitici in aereo, ma non avrei fatto fatica a rimanere piantato lì, per un buon quarto d'ora, a godermi quel panorama ravvicinato. Il mio battesimo personale, a tre minuti dall’arrivo, è la conferenza stampa di Aprilia che rinnova con entrambi i piloti. Quell’ambiente che si vede in TV con le scritte MotoGP sullo sfondo, al Mugello, è una saletta minuscola gonfia di telecamere. I nomi dei piloti sono sulle sedie, fa effetto. Guardarli negli occhi, fare domande, fa effetto. Tra l’essere lì e vederli dal divano passa la stessa distanza che c’è tra l’accendere la luce quando torni a casa e prendere la 220 mentre lo fai: non solo ti senti nel posto giusto, sei anche così in tensione da rimanere bloccato.
Finita la conferenza mi trasferisco in sala stampa, scelgo un posto da cui si vede bene il rettilineo prenotandolo per tutto il weekend con un biglietto adesivo. Ci sono i fotografi, da Gigi Soldano ad Alex Farinelli, e ci sono gli stranieri: inglesi, spagnoli, tedeschi. C’è Maria Guidotti, che ha gestito il mio accredito assieme a quello di tutti gli altri. E poi lo squadrone di MotoSprint, i ragazzi di GPOne, Giovanni di Pillo, Paolo Ianieri, Giovanni Zamagni e chissà quanta altra gente. C’è, in sintesi, tutta la MotoGP che puoi leggere, vedere, commentare o maledire ogni giorno. Con Zam abbiamo in sospeso una birra (pagata da lui!), ma è troppo concentrato sul lavoro e sul Milan che ha vinto lo scudetto per starmi dietro. Mi dice che il primo GP l’ha seguito piantando la tenda in collina per poi essere mandato via dagli addetti alla sicurezza durante la notte: “Mettila venti metri più in là, mi hanno detto. Questo è stato il mio debutto”. Paolo Ianieri invece mi racconta che il suo, di debutto, è stato a Suzuka 2001, quella folle gara in cui Biaggi allargò il gomito e Rossi stiracchiò il medio. Paolo scrive per la Gazzetta dello Sport da almeno vent’anni ma non riesce a tirarsela. Mi prende in custodia, insegnandomi le logiche complicatissime di queste giornate frenetiche fatte di competizione anche per chi non sale sulla moto. Lì in mezzo, senza esperienza, sei come un neonato: o stai fermo aspettando che il giorno finisca o parti in esplorazione sperando di non fare troppi danni.
Così incontri Marc Marquez in mezzo ai camion, Miguel Oliveira col passeggino e la moglie, Gianni Rolando che attraversa un corridoio coi Ray-Ban, le stampelle e un ghigno in faccia. Alla fine di ogni giornata i piloti si siedono in cattedra di fronte alla sala stampa, aspettano i giornalisti e cominciano a parlare. Domande finché serve, fatte da chi le vuole fare, sempre con un loro uomo vicino che non interviene quasi mai. Ad un certo punto Franco Morbidelli si siede in mezzo ai giornalisti ad aspettare il suo turno. È Paolo Ianieri che mi spiega che alcuni piloti, tra cui Marc Marquez ed Enea Bastianini, non partecipano alla processione ma ricevono i giornalisti nell’hospitality. Gli orari girano in messaggi WhatsApp che lui condivide con me.
Nel paddock poi c’è la gente, tanta gente. Inseguo Jorge Lorenzo per tre giorni finché, un paio d'ore dopo la gara, mi rilascia un’intervista. Fuori dall’hospitality della Gresini Racing incontro Carlo Pernat e Paolo Beltramo. Loro sono i sultani del paddock, quando li vedi non ti puoi sbagliare. Dal venerdì c’è anche Aldo Drudi, ha disegnato la livea per Gresini (quella standard, ma anche quella per la pace dedicata al GP d’Italia) e lo incontro mentre scherza con Mamola sul Viagra: Randy prende una pasticca immaginaria, mima un paio di leccate e fa finta di infilarla nel taschino della camicia: “And i said ok, i’m ready”. Ridiamo di gusto. La sera Paolo mi fa fare un giro nel paddock e mi chiede che faccio a cena. Così, incredulo e sbalordito, finisco nella trattoria a qualche chilometro dalla pista in cui vanno un po’ tutti.
Ci sono i piloti, col gel in testa e una nuvola di profumo, che chiedono di stare dentro per evitare le foto dei fan. Noi sediamo fuori vicino a Carlo Pernat, Paolo Beltramo e Massimo Calandri, una trinità di buone maniere e cattive intenzioni di nuovo assieme dopo chissà quanto. Parlano delle gare, delle notti in giro per il mondo. Pernat ha un rotolo di contanti in tasca e trabocca di aneddoti: “Nel motocross si stava con la merda fino a qua, capito? belìn se era bello”. E poi le storie del Sic con la BMW sempre a fondoscala, le fighe in giro per il mondo, le gare in città che oggi non hanno neanche più un circuito. Quando il più elevato dei manager decide di andare via, non prima di aver offerto la cena ad almeno un paio di persone, è per chiudersi nella sua stanza d’hotel a messaggiare con la fidanzata. Sudamericana, ovviamente. E giovanissima. Dice che quando l’ha conosciuta le ha appoggiato una mano sul culo e da lì è iniziato tutto. Carletto è proprio come lo raccontano, come lo racconta lui nel suo libro, solo un po’ meglio. Anche Beltramo è così: gli piacciono le corse, le donne, la leggerezza. Scrivi un libro, gli dico, ma secondo lui è faticosissimo e poi non lo leggerebbe nessuno. Finiamo a parlare di musica. Vorrei sdebitarmi con Paolo Ianieri, lui però non si lascia offrire la cena e mi spiega come fare per tornare a Firenze. Ce ne andiamo.
Ogni notte torno lì, in quella casa da cui siamo partiti sempre, perché la strada per il Mugello la conosco e mi piace. Mio padre è in Puglia e tornerà domenica. Per tutta la settimana arrivo sfinito verso le due, a volte le tre di notte. Lascio le persiane aperte e al mattino mi sveglio alle 6, salgo sulla V2 parcheggiata fuori e mi godo il momento, rinfrescato da quella Ducati perfetta per l’occasione e dalla statale che porta all’ingresso principale col casco rosso. Il venerdì Guido Meda mi invita a fare un giro in moto. Una scappatella lunga e non prevista, tanto che finiamo a cenare allo Chalet Raticosa. Domenica lo vado a cercare e mi porta in pit-lane ad assaporare la calma, bellissima e un po’ desolante, che scende in tutto il circuito dopo la gara.
Al Mugello, il sabato, sono stato anche nel box del Team Gresini, è un regalo che mi hanno fatto. Il lunedì prima della gara abbiamo registrato un lungo speciale che, per tutta una serie di motivi, uscirà per il GP di Misano. Siamo stati a Faenza a vedere i capannoni e le cose di Fausto, abbiamo conosciuto le persone, parlato di quello che fanno: tutti disponibili, divertiti, appassionatissimi. Dentro il box è diverso. I meccanici durante i turni in pista sono come ballerini a teatro, cercano la perfezione senza dirsi nulla. Non si guardano nemmeno, vanno ad un ritmo che sentono solo loro, tutti insieme come una tribù. Sono gli aborigeni del Mugello. Quando senti che sono come una famiglia ci devi credere.
Prima di andarmene incontro Michele Masini, il Team Manager, l’uomo che ci ha fatto da guida a Faenza e che mi ha portato nel box a vedere le persone e tutto il resto. Enea è scivolato in gara e loro sono lì a raccogliere i cocci. Cerco di consolarlo, lui le corse le fa da dieci anni e conosce bene anche quella sensazione lì, lo zero. Lo zero vuol dire che sei partito col camion, hai montato tutto, hai lavorato come un disgraziato e il Dio delle corse ha deciso di castigarti. Masini, il Maso, sorride e dice che non ci si abitua mai. A questo, a tutto questo, non puoi mai abituarti davvero. Paolo Ianieri mi ha preso con sé, portandomi a guardare Marc Marquez negli occhi mentre dice che smetterà di correre. Carlo Pernat è cinema d’autore, una cena con lui dovrebbe essere un’esperienza da regalare ai fissati di moto. Il sabato ho mangiato nell’hospitality Ducati e, per caso, Claudio Domenicali è venuto a stringermi la mano. I ragazzi della Gresini Racing mi hanno trattato come uno di famiglia. Il paddock, che sa essere un mostro pieno di teste e denti cresciuti per macinare carne umana, mi ha fatto sentire quasi a casa. Il perché me lo ha spiegato Guido Meda in due parole, senza pensarci: “Siamo persone”. Ma pure a questo non ci si abitua mai, perché il giornalismo e le corse sono ambienti difficili anche presi singolarmente, figuriamoci messi insieme.
La domenica sera torno a Firenze, probabilmente per l’ultima volta quest’anno. Andiamo a cena, mio padre e io, e mi faccio prestare la sua tessera sanitaria per comprare le sigarette. Lui non fuma più, rifiuta pure l’acqua frizzante che è sempre stata una sua necessità. Le prime volta, al Mugello, andavo a fumare di nascosto tra una gara e l’altra con la scusa di guardare le bancarelle del merchandising, mio padre faceva finta di niente. Siamo a tavola, abbiamo preso una bottiglia di vino che lui non può bere. Dopo i carciofi fritti e prima della tagliata ci arriva un messaggio da mio fratello: è appena nato suo figlio, il mio primo vero nipote, il terzo di mio padre. La notizia arriva con qualche foto, di cui una in cui ha messo in primo piano il pisello per rimarcarne le dimensioni. Era da un po’ che non andavamo tutti assieme al Mugello e per la prima volta in quindici anni ci sono andato da solo. Eppure, alla fine, quel circuito tremendo e magnifico è riuscito a unirci ancora un po'.