In principio, sul monte Dimaro, fu il verbo: “Sono io il vostro Cavani”. Dal Vangelo secondo Aurelio De Laurentiis, che in prima persona ha scritto, poi letto, modificato, pubblicato, venduto, infine interpretato al teatro (anzi, al cinema, più congeniale) il testo. La parabola del suo Napoli è cresciuta negli anni di pari passo con il suo ego; ma si sa, è una regola di qualsiasi prodotto – e una squadra di calcio, oggi più che mai, lo è: ogni cosa che va su è destinata, prima o poi, a tornare giù. E se il progetto tecnico degli azzurri targati DeLa è per forza di cose vincente: si è passati in quindici anni a giocare con Aronica a Kim, con Sesa a Osimhen, con Dzemaili a Zielinski, meno trionfante sembra essere quello comunicativo. Ed è un paradosso, se si pensa alle doti di Aurelio: provocatorio e divisivo come pochi, in un Paese che, non solo quando si parla di pallone, si fa sedare e abbonire dal politicamente corretto. Le sue crociate, dai diritti tivù a quelle contro i procuratori e i maxi-ingaggi folli, hanno fatto e faranno solo bene al calcio, ma cosa è successo al suo Napoli, proprio dopo aver vinto il tanto atteso terzo Scudetto? È semplicissimo: De Laurentiis dopo anni nei quali si sentiva strillare “Pappò cacc’ ‘e sord’” ha gonfiato il petto fino quasi a esplodere. Dalla prima festa Scudetto, quella al Maradona dopo che la squadra ha pareggiato a Udine, mettendo le mani grazie alla matematica sul tricolore, il presidente si è trasformato da patron ad artefice maximo, unico, totalitario. C’è una linea di confine che viene marcata dal momento in cui nello stadio stracolmo risuona Napul’è di Pino Daniele: i presenti, dopo trentatré anni (e mai numero poteva essere più sacro) accendono e fanno vibrare come una marea le torce dei telefoni e si lasciano andare al pianto liberatorio. È la città, è Napoli, è il collettivo in quel momento che vive la vittoria, lo Scudetto è ancora una res pubblica, il traguardo della maratona durata cinque mesi di vantaggio cosmico sulle rivali e oltre trent’anni di attesa per un popolo, più di una generazione che intanto è scomparsa, è cresciuta, ha fatto i capelli bianchi. Lì si varca la linea e finisce lo Scudetto dei napoletani, dei dirigenti e dei giocatori, e inizia quello di Aurelio. Il microfono passa a lui e quel microfono non sarà mai più lasciato. Sarà suo per la seconda festa, quella dopo l’ultima giornata in casa con la Fiorentina. Quando metterà in difficoltà Giuntoli in mondovisione, già conscio della sua volontà, sacrosanta, umana, di cercare un’altra sfida. Quando prometterà la Champions ai suoi tifosi. Sarà suo anche per le settimane successive, quando parlerà di pec inviate a Spalletti, di consultazioni con oltre trenta allenatori, quando si farà sfuggire (o fuggire, senza errori) frecciatine a mezza bocca sul suo ex tecnico toscano. E sarà suo, quel microfono, anche durante l’estate, con la volontà ferrea di trattenere tutti alle sue condizioni, a seconda del loro ruolo o rapporto con il Napoli.
E Osimhen non si vende se non a ottocento miliardi di milioni, e Kvara il contratto ce l’ha già, non c’è bisogno di alcun ritocco, e Spalletti CT della Nazionale, per essere liberato, ha una penale di trenta denari. Fino a quando, scelto Rudi Garcia come nuovo allenatore, De Laurentiis quel microfono non lo molla neanche alla ripresa del campionato, continue ingerenze e dichiarazioni, di fronte a giocatori, stampa e tifosi, contro il tecnico che lui stesso, senza più direttore sportivo al fianco a consigliarlo, aveva cooptato. E oggi, esonerato con disonore Garcia, DeLa ha scelto Walter Mazzarri. Farà il traghettatore in attesa della fine della stagione? Chi lo sa, se Walter ha una dota è quella di sovvertire i pronostici quando è dato per spacciato. Per ora è un ritorno che parla, probabilmente, di mancanza di alternative. Perché Mazzarri dopo il periodo partenopeo, nelle ultime stagioni, non è che se l’è passata così bene, parentesi al Watford e poi Torino (con qualche acuto) e Cagliari. Alla fine, sempre esonerato. Soprattutto: non è un allenatore che può portare qualche idea nuova. E se nell’arco dell’intera era delaurentiana si è saltati da Mazzarri a Spalletti, passando tra gli altri per Benitez e Ancelotti, per poi tornare al punto di partenza, è chiaro che qualcosa, adesso, non va. Se in estate Luis Enrique (anch’egli frecciato per aver rifiutato la sua squadra, come se rifiutare un lavoro per lui fosse reato di lesa maestà) e Conte hanno preferito virare altrove o aspettare un’altra chiamata, un motivo ci sarà. Aurelio De Laurentiis per il Napoli è stato la panacea, questo è innegabile. E lo Scudetto, alla fine, l’ha vinto per davvero, strameritandolo. Eppure, ADL sembra anche il veleno, auto-iniettato, che ha bisogno di sé stesso per essere diluito e reso inoffensivo. Un cane che si morde la coda. Un presidente che si morde da solo. Un tutt’uno, un unicum: totus tuus, come diceva Papa Wojtyla. Dal Vangelo secondo ADL: “Sono io, e solo io, la vostra Napoli”.