Sabato mattina. Sono in fila assieme ai genitori di Marco Bezzecchi: Vito, il papà, aiuta mamma Daniela a indossare i guanti, il casco che ha in testa è un AGV replica del figlio, con lo scorpione e il numero 72. Assieme a noi ci sono anche una signora del fan club e un paio di ragazzi suoi amici. Succede tutto in un attimo: arrivi in pit lane, Gigi Soldano ti scatta una foto in cui tieni un cartello col tuo nome per riconoscerti nelle immagini. Un attimo dopo sei su di un sellino grande come una fetta di pizza che cerchi a tentoni il maniglione avvitato sul tappo del serbatoio e Marco Bezzecchi, che sei giorni prima ha vinto la gara in MotoGP, ti chiede se sei pronto, se va tutto bene. Io conosco il circuito, ci ho girato il giorno prima e lo scorso anno sono anche riuscito a fare un giro sulla Ducati X2, la biposto derivata dalla MotoE con freni in carbonio e Franco Battaini alla guida. Mi sento preparato come chi arriva in aeroporto e ha viaggiato abbastanza da riconoscere gli agenti della sicurezza. Quaranta secondi più tardi mi sarei sentito, invece, come se qualcuno avesse dirottato l’aereo: zero certezze, zero procedure, nessun protocollo. Solo meraviglia, paura, bellezza e follia.

Attorno abbiamo un gran capannello di gente. Io abbasso la visiera, è il momento. A quel punto lui si gira, mette la mano vicino al casco e mi dice a bassa voce: “Facciamo un giro in più”. Lo dice come te lo direbbe un amico, come se avessimo nove anni e lui fosse riuscito a rubare quattro caramelle e me ne stesse offrendo un paio. Sul momento non capisco le parole, o forse non le voglio capire. Ci arrivo a metà pista. Marco mette la prima, col cambio rovesciato, e andiamo. Impenna, cosa che mi aspettavo. Poi però frena oltre ogni ragionevole riferimento, diciamo così, si butta a destra come se la moto fosse una racchetta da ping-pong, cambio di direzione, dentro a sinistra, vedo i grani dell’asfalto come li vede uno Yorkshire. Follia. Altro cambio di direzione per quella sontuosa curva a destra che porta alle curve del Rio: Marco qui stacca fortissimo, ancora una volta si butta dentro e io penso che sta portando un drago. Usciamo da curva 6, quella che immette sul rettilineo posteriore, salendo sul cordolo esterno, quello fatto a scalini, dove lui ha la brillante idea di alzare l’anteriore della moto. Siamo alla follia più incontrollata. Dico no, non puoi farmi questo. Così andiamo a morire, fratello. In un’altra situazione ti direi anche che va bene, che in fondo sarei potuto morire in tante altre maniere. Eppure non sono per niente convinto, vorrei sopravvivere.

Niente ti prepara per una cosa del genere, anzi. Conviene avere la mente sgombra, nessun riferimento. Arriviamo alla curva della Quercia e lì capisco che Marco Bezzecchi vuole spaventarmi un po’. Ci sta, me la sono cercata. Magari me lo merito pure, di sicuro è il suo momento per farmi pagare le centinaia di domande inutili, almeno per lui, che gli piovono addosso dopo la gara, quando probabilmente vorrebbe solo andare a tracannare Prosecco nel box quando va bene e buttarsi sotto la doccia a contare gli ematomi se è andata male.
Mi hai fatto lo scherzo, bello, bellissimo, però adesso devi frenare.
Penso a un paio d'anni fa, quando gli feci un’intervista giocando al biliardino che la VR46 tiene in hospitality: era partito bene ma sono riuscito a fregarlo in rimonta. Gli sparavo le domande tra un tiro e un passaggio, un po’ per distrarlo dalla partita e un po’ per provare a tirargli fuori risposte più spontanee. Marco non sta frenando. Penso che morire per una partita a biliardino è un po’ troppo, anche se i piloti sono eccessivi e spesso pure permalosi. Questo scherzo costerà a tutti e due un giro di lavatrice nella ghiaia.
Per Marco è la prima volta con qualcuno dietro su di una biposto: che ne sa lui dei pesi, di come reagiscono i freni, di come cambiano le distanze quando si è in due. Abbiamo passato da un pezzo l’inizio del cordolo e lui ancora non frena, io ripenso alla quella frase magica di Jeremy Clarckson: “La velocità non ha mai ucciso nessuno, il problema è sempre quanto ti fermi troppo in fretta”. È incredibile il numero di cose che si riescono a pensare in un momento così, col tempo che gira al rallentatore. Spiace soltanto che nessuna sia particolarmente piacevole.

Eccolo che finalmente stacca, ormai clamorosamente in ritardo. La moto finisce con tutto il carico sulla ruota davanti e ti ritrovi a spingere sul maniglione avvitato al serbatoio con tutto quello che hai, che chiaramente non basta. È come se stesse piantando la ruota anteriore dentro l’asfalto, come se volesse farcela entrare di un mezzo metro alla maniera di chi pianta l’ombrellone nel bagnasciuga.
Marco ce la fa, riusciamo a entrare in curva, non saprò mai quanto avrà rischiato ma so immediatamente che io, da solo, col tempo e tutto il resto, non frenerò mai così in vita mia. A riedere il video è probabile che non abbia rischiato nulla e che questa sia una staccata disgustosa per i suoi standard.
Il tramonto, totalmente senza riferimenti, è quasi peggio, perché nella stessa pista da solo non ci stavo. Arriviamo al Curvone a oltre 220 Km/h in due, in accelerazione, con la moto che si muove sul cordolo interno, una sgradevole sensazione di terrore. Quello che ti frega è che allo stesso tempo è meraviglioso, stai capendo quanto il tipo sia a metà tra l’estro di un artista e le capacità di un atleta. La verità è che per cose del genere non basta allenarsi, così come non basta avere l’intuizione. Uscendo dal Carro mi chiede se voglio fare un altro giro. Sono psicologicamente sfinito, mi aspettavo una passeggiata e stiamo facendo un , chiaramente però gli dico di sì: e quando ti ricapita una roba del genere. Lui annuisce e riparte a cannone, sul rettilineo mi ricordo di respirare almeno una volta. E poi via, freno. Dentro velocissimo, staccate da demolire il cervello. Arriviamo al curvone impennando. A fine giro lui toglie una mano dal manubrio, io gli batto sulla spalla per ringraziarlo. Lui sfrutta il momento per prodursi in uno stoppie. Se vuoi una moto buona per la pista, vale la pena pensare che questa Aprilia RSV4 è stata in grado di sopportare i maltrattamenti di un pilota MotoGP con tanto di passeggero.
Viviamo in un mondo di esperienze catalogabili. Il peperoncino piccante sempre allo stesso modo, il gin tonici a gradazione controllata. Pure i salti dall’aereo col paracadute sono estremamente sicuri e parametrati per offrire un’esperienza adatta. Questo no, questo è come stare su di una giostra viva, come prendere il maledetto toro per le corna. È cavalcare un drago, sì, ma un drago vero e non uno colorato per i bambini con gli occhi da giapponese. Marco Bezzecchi è quello che i draghi li addestra: sputano fuoco come vuole lui e quando vuole lui. Questi draghi si agitano come vuole lui, che li fa volare, che li fa alzare.
Che gli vuoi dire, a uno così. Uno che poi quando scendi ti guarda con gli occhi che ridono dicendo che si è divertito anche lui. Chissà se è vero. Di certo a uno così gli devi voler bene. Un domatore di draghi col mullett e gli orecchini, uno squilibrato che guida la moto come se non il passato e il futuro non esistessero: c’è solo il momento, l’istante e quel motore che suona forte per tutta la pista.
