Che cos’è un nome? Una parola, un suono, un’eredità? Per l’Inter, è molto di più. È un manifesto. Un’idea nata nel 1908, in un ristorante di Milano, e diventata oggi qualcosa di così grande da meritare di essere raccontato da una leggenda del cinema: Spike Lee. L’Inter non si limita a partire per l’America, per la Fifa Club World Cup, con i trofei in valigia: ci va con un progetto nuovo, ambizioso e identitario. Si chiama My Name Is My Story ed è un modo per presentare il Club a un pubblico nuovo, internazionale, trasversale. Come? Affidandosi a un regista due volte premio Oscar, simbolo di sport, cultura e autenticità. Perché Spike Lee non è solo un regista. È un archetipo. Un tifoso vero, uno storyteller universale, uno capace di parlare a tutti, dai boomer ai Gen Z, con la stessa forza. E con uno stile che, per una volta, fa sembrare l’Inter più New York che Serie A.
Il video, un mid-form prodotto da Inter Media House , è stato presentato il 10 giugno, proprio prima della partenza per la Club World Cup. E non è il solito spot emozionale: è un racconto che parte dall’inizio, da quella visione del mondo che ha fatto nascere il nome “Internazionale”. Non solo un nome: un gesto. Un atto di ribellione e di apertura che oggi torna a essere centrale nella strategia e nell’identità del club.
“In previsione del nostro arrivo negli Stati Uniti per la Fifa Club World Cup abbiamo pensato ad un modo innovativo e originale per raccontarci in modo autentico alle nuove generazioni di americani, attraverso la nostra storia che risale a più di cento anni fa ma che risulta allo stesso tempo estremamente attuale”, ha spiegato Giorgio Ricci, Chief Revenue Officer dell’Inter. “Riuscire a presentarci ad un pubblico internazionale attraverso il contributo di un regista di fama mondiale come Spike Lee è un traguardo straordinario e rappresenta una grande opportunità per rendere il nostro brand sempre più rilevante a livello globale”.
Il video lo dimostra: la storica foto dei fondatori del Club, scattata al ristorante L’Orologio, viene animata grazie all’intelligenza artificiale. E la Milano del 1908 prende vita, come se si potesse sfogliare un album di famiglia e al tempo stesso guardare al futuro. È una scelta estetica, certo, ma anche strategica: perché oggi parlare di calcio vuol dire parlare anche di innovazione, di comunicazione, di identità culturale. E Inter, almeno stavolta, lo fa meglio di tutti.

E poi c’è lui, Giorgio Muggiani. Il fondatore che ha disegnato il primo stemma, ma soprattutto l’uomo che ha scelto il nome. In un’Italia chiusa e autoreferenziale, Muggiani e gli altri hanno scelto di chiamare quella squadra “Internazionale”, perché volevano un Club aperto al mondo. Lontano da steccati nazionali, vicino al futuro. Un gesto radicale, modernissimo, che oggi trova nuova voce in Spike Lee. “Si chiamerà Internazionale, perché siamo fratelli e sorelle del mondo”. Oggi quel messaggio diventa una piattaforma di comunicazione integrata: contenuti video, attivazioni, social storytelling, Ooh e asset digitali. Ma soprattutto diventa un ponte tra quello che l’Inter è sempre stata e quello che vuole diventare: un’icona non solo sportiva, ma culturale.
E forse è proprio questo il punto. Che l’Inter non si accontenta più di giocarsela solo in campo. Vuole contare anche fuori. Vuole entrare nell’immaginario, farsi capire anche da chi non ha mai visto una partita. Vuole parlare americano senza perdere l’accento milanese. E farlo con Spike Lee non è solo una mossa brillante. È una dichiarazione d’intenti.
