Il tennis italiano è diventato sistema. E fin qui, siamo tutti d’accordo. Basta guardare la settimana appena passata: Darderi che trionfa a Marrakech, Cobolli che si prende Bucarest, Arnaldi sul Centrale di Montecarlo, Musetti e Berrettini che si dividono il Campo dei Principi. Scene da film, se le avessimo immaginate solo qualche anno fa. Eppure, sono reali, ripetute, quasi normali. Ma poi arriva la domanda: sì, ok, ma senza Sinner, questo “cast” regge? Se lo chiedono i tifosi, se lo chiedono i giornalisti, e se lo chiede (in parte) anche Paolo Bertolucci, che sulla Gazzetta dello Sport ha tracciato una linea netta: “L’Italia ha sostituito l’armata spagnola e lo squadrone francese. Oggi il nostro tennis è una splendida realtà”. Una frase che suona come un’investitura, ma che chiama anche alla responsabilità. Perché da fuori sembra tutto perfetto, ma senza Sinner il buco si sente. Eccome. Il percorso che ci ha portati fin qui è stato lungo, e Bertolucci ne ricostruisce i passaggi: Cecchinato che nel 2018 batte Djokovic a Parigi, Fognini che nel 2019 conquista Montecarlo, Berrettini che nel 2021 sfiora Wimbledon e diventa numero 6 del mondo.

E poi, ovviamente, Jannik, che rompe il tabù, conquista uno Slam e si prende il trono da numero uno. “Non solo loro, ma anche Sonego, Musetti, Arnaldi, Cobolli: tanti giovani che hanno raggiunto una classifica di livello assoluto”, scrive Bertolucci. E fin qui, l’entusiasmo è legittimo. Ma quando Sinner si ferma (per squalifica, per scelta, per pausa) si accende la spia: il movimento va avanti, ma rallenta. Lo vedi nei tabelloni, dove senza di lui mancano le zampate pesanti e lo vedi anche nel morale collettivo, che vive ancora dell’inerzia lasciata da Jannik, ma fatica a produrre da solo la stessa adrenalina. E allora il punto non è se Berrettini, Musetti, Sonego e Cobolli siano all’altezza. Lo sono. A tratti. Con i loro limiti, con le loro fasi, con le loro incostanze. Il punto è che Jannik ha alzato l’asticella in modo irreversibile, e ora tutto ciò che sta sotto, anche se buono, anche se valido, sembra mancare di qualcosa. Bertolucci, però, guarda al quadro intero, e invita a ragionare in termini di sistema: “La spinta reciproca e lo spirito di emulazione hanno permesso di sfruttare la classifica come se si fosse in una cordata alpinistica: uno dietro l’altro seguendo chi guida, senza possibilità di fermarsi”. E chi guida, oggi, è proprio Sinner. Anche da fermo.

Il punto è proprio questo: la forza del movimento sta nella squadra, ma l’identità, almeno per ora, resta legata a un solo nome. Senza di lui, la Nazionale resta competitiva, i giovani continuano a salire, ma manca il riferimento. La sicurezza di avere un campione che può vincere ovunque e contro chiunque. Montecarlo, in questo senso, sarà un test importante. Non per Sinner, che tornerà solo a Roma, ma per capire se gli altri reggono la scena da protagonisti o se aspettano, inconsciamente, che sia di nuovo Jannik a dettare il ritmo. Cobolli arriva con un titolo in tasca e voglia di stupire, Berrettini ha vinto al debutto e si prepara a sfidare Zverev, Sonego ha bisogno di risposte, Musetti deve ritrovare sé stesso. Tutti, in fondo, hanno un’occasione per dimostrare che questo movimento non è solo la scia di Sinner, ma una corrente autonoma. “Il tennista italiano ha finalmente cambiato mentalità, ha smesso di cercare alibi, si è adattato alla vita all’estero, ai fusi orari, alle superfici diverse. Ha capito che il professionismo vero è un mestiere globale”, scrive ancora Bertolucci. È vero. Ed è merito anche della Federazione, dei team privati, di una gestione più moderna e meno accentrata. Ma adesso bisogna fare il passo in più. Dimostrare che si può vincere anche senza il simbolo. Che l’Italia del tennis può funzionare anche se Sinner non c’è.