Uno dei problemi più gravi nel modo in cui il caso Imane Khelif è stato trattato è aver ridotto la notizia a una singola circostanza e non a un tema che interessa il mondo dello sport professionistico da anni. I partigiani hanno sostenuto alla cieca questa o quell’istituzione, chi l’International Boxing Association (Iba), che sostiene di aver fatto dei test del dna a Khelif e Lin Yu-Ting, l’altra pugile in semifinale e che, nel caso di vittoria di entrambe, disputare la finale proprio contro l’algerina; chi il Comitato olimpico (Cio), che nega tutto, nonostante abbia più volte ritrattato la sua posizione, correggendo comunicati ufficiali ed evitando di rispondere in sala stampa ad alcune domande poste dal vivo (per esempio dal Daily Mail).
Tuttavia, il caso Khelif e il caso Yu-Ting si inseriscono in un racconto più vasto, quello dell’equità nelle competizioni sportive e dell’uso del principio di inclusione. E il Cio sembra aver fallito sistematicamente nel fornire garanzie alle atlete donne di poter competere in condizioni di parità e di sicurezza. Sicurezza, ovviamente, dal momento che il pugilato, lo sport di contatto per eccellenza, può costituire un rischio in sé per qualsiasi atleta, ma ancora di più per una atleta che dovesse trovarsi a combattere con atlete e atleti strutturalmente avvantaggiati dalla natura. Che Khelif e Yu-Ting siano biologicamente dei maschi (cromosomi xy) resta un’ipotesi, per quanto fondata, ma che il Cio debba rispondere con trasparenza alle innumerevoli critiche di esperti del settore è, in una società libera, un fatto.
In particolare, un recente studio pubblicato sullo Scandinavian Journal of Medicine & Science in Sport, The International Olympic Committee framework on fairness, inclusion and nondiscrimination on the basis of gender identity and sex variations does not protect fairness for female athletes (2024), si mostra come “il quadro del Cio [in materia di equità, inclusione e non discriminazione nello sport, ndr] non sia coerente con le prove scientifiche e mediche esistenti”. In particolare, si fa riferimento all’idea che sia sufficiente testare i livelli di testosterone delle atlete per garantire una competizione equa. Ciò che si mette in dubbio, infatti, è la capacità di questi test di rendere conto degli effetti vantaggi fisici di atlete e atleti che hanno affrontato in età puberale il tipico sviluppo maschile di muscoli, ossa e capacità fisiche, vantaggio che una terapia per abbassare i livelli di testosterone, ed essere idonei a competere alle Olimpiadi, non può cancellare.
In effetti, il Cio ha dismesso nel corso degli ultimi vent’anni tutto ciò che era necessario per poter individuare il sesso dei partecipanti in modo efficace. Le nuove linee guida del Cio reputano sufficienti una verifica dei livelli ormonali e l’identità che si trova scritta sui documenti legali, come un passaporto. Ma mentre la prima condizione non è sufficiente a stabilire se vi siano o meno vantaggi in chi compete, la seconda è del tutto inutile per inquadrare dal punto di vista biologico l’atleta. Il paper del 2024 citato si concentra in particolare sulle donne transgender, dunque che abbiano affrontato una transizione. Ma il caso di Khelif e di Yu-Ting non rientra in questa categoria di atlete. Tuttavia, l’argomentazione nello studio si adatta a molte altre condizioni, per esempio quelle di un maschio biologico con un disturbo (o differenza) dello sviluppo sessuale, un dsd.
Come spiegato da Doriane Coleman su Quillette, i dsd più diffusi nel mondo dello sport sono disturbi dello sviluppo maschile, ovvero disturbi che riguardano maschi biologici. Tra questi, lo sviluppo più diffuso è il deficit di 5-alpha reduttasi, un dsd che impedisce a un maschio biologico di sviluppare genitali maschili ma non di avere una crescita fisica tipicamente maschile. In casi del genere, pur gestendo i livelli di testosterone, il fisico dell’atleta sarà biologicamente più adatto a certi tipi di competizione, tra cui il pugilato (più forza, più veloce, più resistenza). Il caso più nodo nel mondo dello sport è quello di Caster Semenya, la mezzofondista che si scoprì avere cromosomi maschili (xy), ma un deficit della 5-alpha reduttasi.
Questi casi sono, sul piano dell’argomentazione e della critica al Cio, del tutto assimilabili a quelli che riguardano persone transgender. Per cui le critiche dell’articolo si adattano anche a questi: “Numerosi studi hanno dimostrato che le differenze biologiche persistono dopo la soppressione del testosterone, con implicazioni sulle prestazioni fisiche. Non esiste un meccanismo biologico plausibile mediante il quale la soppressione del testosterone potrebbe ridurre l'altezza e le misurazioni scheletriche associate (ad esempio, lunghezza delle ossa e larghezza dell'anca o delle spalle) che possono conferire un vantaggio prestazionale dipendente dalla disciplina”. Quindi i vantaggi guadagnati in fase di crescita sarebbero irreversibili.
Mentre le due atlete si apprestano a disputare le loro semifinali e, forse, una finale olimpica, bisogna chiedersi perché il Cio non tenga conto di questi elementi e, anzi, si rifiuti di porvi rimedio attraverso metodi non invasivi, come i test del dna con tamponi orali. Uno studio storico del 2000 di L. J. Elsas, Gender verification of female athletes, mostrava come l’82% delle atlete fossero favorevoli a un test per identificare il sesso e fino al 94% delle atlete si diceva “non preoccupata” nel caso in cui avesse dovuto fare il test. Nonostante questo, venticinque anni fa il Cio ha vietato questi test considerandoli discriminatori e invasivi. In tutta evidenza, e in accordo con i risultati scientifici più aggiornati, il test del dna resta tuttavia l’unico modo di rendere conto delle differenze tra i due sessi nel settore sportivo.