De Zerbi, che non rilasciava interviste da due anni, apre la bocca a Supernova, da Alessandro Cattelan. Il tecnico italiano,oggi all’Olympique Marsiglia, ha commentato con lucidità una serie di temi, tra attualità sportiva, visione culturale e riflessioni personali. Sollecitato su Luis Henrique, suo ex calciatore e nuovo acquisto dell’Inter, ha tracciato un profilo tecnico e umano del giocatore: «Ha fisico, qualità e serietà. Se riuscirà ad adattarsi alla pressione ambientale di San Siro e a reggere un calendario fitto, sarà un acquisto di valore». Se lo dice lui, gli interisti possono quantomeno sperare.Sul piano del metodo, De Zerbi chiarisce un punto fondamentale: «L’allenatore non è qualcuno che insegna come si gioca a calcio. Deve creare le condizioni migliori per far esprimere i giocatori e trasmettere fiducia». Il lavoro individuale sui calciatori resta centrale, ma con una consapevolezza precisa: ogni atleta richiede un approccio differente. «Luis Henrique viene da Rio, ha bisogno di una dose di affetto diversa rispetto ad altri. Non si può trattare tutti allo stesso modo». Anche con Mason Greenwood, attuale capocannoniere della squadra marsigliese, il rapporto si è costruito con discrezione. «Abbiamo avuto due conversazioni profonde in tutta la stagione. In quei momenti mi ha fatto capire chi è. Nei momenti più delicati, il tramite è stato suo padre. Se un calciatore non si apre, non lo forzo. Ognuno ha la propria sensibilità e merita rispetto».

Non è la prima volta che De Zerbi sceglie di portare la cultura nello spogliatoio. Alla notizia della morte di Maradona tenne una lezione di mezz’ora ai suoi giocatori per spiegare cosa rappresentasse. Un gesto simile lo fece dopo la scomparsa di Papa Bergoglio. «Non mi interessa evangelizzare. Mi interessa condividere il mio punto di vista su figure che ritengo significative, anche oltre lo sport». Il motivo del lungo silenzio con la stampa italiana non è stato casuale. «Una parte del giornalismo ha usato il mio nome per regolare conti con Adani, con cui ho un legame fraterno ma idee autonome. Un grande giornalista mi disse che mi aveva attaccato solo per colpire lui. Da lì ho scelto di non espormi più». A infastidirlo è anche l’etichetta di “filosofo del gioco”, usata spesso per semplificare: «Mi interessa vincere. Se serve, proteggo il risultato con soluzioni concrete. Non ci sono schemi fissi, ci sono principi. A Sassuolo e Brighton ho lavorato anche con la difesa a cinque. Alcune idee oggi le vedo riprese altrove, e questo è positivo». Parlando della tragica situazione del Brescia, club della sua città, De Zerbi mostra amarezza: «La situazione è delicata. Brescia ha la passione di una città del Sud, ma una gestione che l’ha portata al collasso. C’è l’ipotesi di una fusione con altri club locali, ma i tifosi non vogliono perdere identità. Capisco le famiglie e i lavoratori, ma serve un imprenditore che ci creda. È sconfortante pensare che a Brescia non ci sia nessuno disposto a fare ciò che ha fatto Percassi con l’Atalanta».

Durante la finale di Champions, non era davanti a uno schermo. «Ero a un concerto di Vasco Rossi con mia figlia. Abbiamo tre appuntamenti fissi ogni anno. Vasco riesce a toccare corde che il calcio non arriva a sfiorare. Ho anche un tatuaggio con il suo volto, ma non voglio conoscerlo. Ho paura che l’incontro rovini ciò che rappresenta per me. Per questo cerco di essere disponibile con chi mi ferma: so quanto può pesare una delusione». E a proposito del pesante 5-0 subito dall’Inter contro il Psg, offre una lettura fuori dalla retorica: «Non ci sono cinque gol di distanza tra le due squadre. Ma in Italia c’è stata superficialità. Nessuno conosceva Doué, che ha una classe pura. Vitinha è probabilmente il miglior centrocampista al mondo. Anche Joao Neves è di livello. Nessuno però ha scritto che siamo arrivati secondi dietro il Psg». Parlando della Nazionale, altro tema calcisticamente dolente, il giudizio non può che essere impietoso: «Il 3-0 contro la Norvegia fa male. Non è un incidente. L’Italia non produce più giocatori di livello come accadeva ai tempi di Totti o Del Piero. Oggi siamo noi a rincorrere. Barella, Bastoni, Tonali, Locatelli sono buoni giocatori, ma non bastano. Il sistema è in difficoltà, e io stesso ne faccio parte». Sottolinea inoltre che la prestazione contro la Norvegia è stata condizionata anche da contesto e calendario: «Il campionato era appena finito, clima e terreni diversi. La Norvegia ha giocatori che l’Italia non può permettersi, come Haaland o Odegaard. Non tutti riescono a resettare mentalmente in tempi così brevi». Infine, un ritorno all’esperienza in Ucraina, dove fu costretto a lasciare lo Shakhtar Donetsk dopo l’invasione russa. «Eravamo in ritiro ad Ankara. I giocatori, molti dei quali brasiliani, vivevano un’ansia crescente. Un giorno si allenavano, il giorno dopo erano abbattuti. Ho riunito lo staff e capito che la paura era diventata insostenibile. Dopo cinque giorni in un bunker, grazie all’aiuto della federazione ucraina e di Gravina, siamo riusciti a uscire dal Paese».

