Gianni Infantino si sta costruendo un cv da diplomatico internazionale. Vicinissimo a Donald Trump, quasi amico forse, primo promotore del premio per la pace Fifa dedicato appunto al Potus. Prima dell’inizio del Mondiale in Qatar del 2022 aveva detto: “Oggi mi sento qatarino. Oggi mi sento arabo. Oggi mi sento africano. Oggi mi sento gay. Oggi mi sento un lavoratore migrante”. Del resto il suo è un messaggio di inclusività, l’istituzione che rappresenta ha come motto “For the game. For the World”, mica si può porre limiti. E infatti coltiva ottimi rapporti con Mohammed bin Salman, principe ereditario saudita, ospitato poche settimane fa alla Casa Bianca da Trump e accompagnato, appunto, da Infantino. In Arabia Saudita si gioca, per la gioia del presidente Fifa, anche la Supercoppa italiana. Inter, Bologna, Napoli e Milan vogliono il primo trofeo della stagione. Ad aprire questa edizione saranno le squadre di Antonio Conte e Massimiliano Allegri, che scenderanno in campo al King Saud University Stadium di Riyadh. Come ogni anno, però, tocca evidenziare il cortocircuito: è il calcio dei diritti o dei compromessi? La durezza con cui gli organismi internazionali si sono mossi nei confronti della Russia (ma Infantino, nel 2018, era pure a fianco di Vladimir Putin) fa da contrappeso alla morbidezza con cui vengono scelte le location per i tornei più importanti. A che punto siamo, infatti, con il rispetto dei diritti in Arabia Saudita? La domanda ci viene non tanto perché il mondo debba adeguarsi ai nostri standard, ma perché tra i valori che pretendiamo di incarnare ce ne sono pure alcuni “inalienabili”. Ecco, quindi: da dove partire?
Nel 2022 le autorità saudite avrebbero acconsentito all’esecuzione di 81 uomini, di cui 41 dopo un processo caratterizzato da torture e confessioni forzare, come evidenziato da Human Rights Watch. Non è una statistica casuale. Se guardiamo al dato del 2024, infatti, risulta chiaro che lo strumento della pena di morte è stato usato in maniera ancora più frequente: in quell’anno sono state 345, il numero più alto di sempre. In generale la situazione dei processi a Riyadh dista molto da quelli che nei nostri tribunali considereremmo equi. Amnesty riporta alcuni casi particolarmente significativi: Manahel al-Otaibi, istruttrice di fitness e attivista per i diritti delle donne, condannata a 11 anni durante “un’udienza segreta” in seguito ad alcuni suoi tweet e alla scelta dell’abbigliamento; Asaad bin Nasser al-Ghamdi, insegnante, condannato a 20 anni di carcere per aver criticato sui social il progetto Vision 2030, il grande piano spinto proprio dal principe bin Salman; Salma al-Shehab condannata a 27 anni per aver ripostato dei contenuti a favore dei diritti delle donne. Anche per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei migranti, talvolta espulsi dopo procedure sommarie di valutazione del loro status. Sempre Amnesty ha ricordato che lo scorso giugno il sindacato globale dei lavoratori dell’edilizia e del legno (Building and Wood Workers’) ha citato l’Arabia Saudita di fronte all’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro all’Onu, accusando Riyadh di sfruttamento e lavoro forzato. Senza contare le denuncie sulle uccisioni di coloro che cercano di attraversare il confine dallo Yemen. In materia di diritti delle donne le cose non vanno meglio: lo scorso ottobre, infatti, il Cedaw (comitato Onu che supervisiona il rispetto delle libertà delle donne) ha espresso preoccupazione in 20 aree di interesse relativamente alla repressione delle attiviste, la persistente carenza di tutele per le lavoratrici domestiche migranti e il mantenimento, di fatto, di un sistema che preferisce tutelare l’uomo a discapito della donna. Per quanto riguarda la libertà di stampa ricorderemo solo il caso di Jamal Khashoggi, giornalista del Washington Post ucciso in circostanze poco chiare. Secondo la Cia il mandante sarebbe proprio Mohammed bin Salman.
Come lavarsi la coscienza con lo sport e l’apertura (ma solo alla bisogna) nei confronti di prospettive sul mondo diverse dalle nostre. I tanti campioni reclutati a suon di milioni sono una splendida cornice per il presunto nuovo rinascimento cominciato in Arabia. La Supercoppa non vale un Mondiale, questo è certo: per noi che guardiamo è una buona occasione per ricordarci dove le nostre squadre (e Nazionali) giocheranno a pallone. Non per insegnare al mondo come vivere, ma per prendere sul serio gli slogan che scegliamo.