Ottant’anni. Di passioni sbagliate, di scommesse vinte, di sogni incantati e notti finite in gloria. Ma anche di lacrime, di silenzi rotti solo da un “me ne assumo la responsabilità” detto davanti alle telecamere mentre il resto del calcio parlava di bilanci. Perché Massimo Moratti non è stato un presidente qualsiasi. È stato l’Inter. L’ha vissuta come un figlio ribelle da proteggere e riportare a casa, come un’opera d’arte da custodire, rifinire, perfezionare, anche quando sembrava impossibile. Come un dovere morale e sentimentale, ereditato dal padre Angelo, ma anche come un atto d’amore puro, disperato, assoluto, come solo i grandi romantici sono capaci di fare. Nato a Bosco Chiesanuova il 16 maggio 1945, figlio dell’uomo che negli anni Sessanta aveva costruito la Grande Inter, Massimo raccoglie nel 1995 un’eredità che è al tempo stesso un peso e un privilegio. La presidenza del club che fu di Angelo Moratti non è solo una poltrona: è un’idea di calcio, di potere, di stile, di italianità. Da quell’anno e fino al 2013 (con una pausa tra il 2004 e il 2006), Moratti non si limita a presiedere il club, ma lo assorbe completamente, spendendo oltre 1,5 miliardi di euro di tasca propria, senza holding, senza fondi esterni, senza cordate: passione irrazionale. Perché lui ha sempre messo il cuore davanti ai soldi.

A partire da un gesto che resterà nella leggenda: l’arrivo di Ronaldo il Fenomeno nel 1997, acquistato dal Barcellona per 48 miliardi di lire. Una follia lucida, un colpo che ridisegna il panorama calcistico europeo. “Se Ronaldo avesse voluto restare, io avrei venduto anche il Duomo”, confessò anni dopo. Con lui arrivano anche altri giocatori amati fino al delirio: Recoba, trattato come un genio fragile da proteggere; Adriano, atteso come un figlio smarrito. È una presidenza fatta di colpi di teatro, intuizioni geniali e scelte impulsive. Un presidente che firma i contratti in ascensore, che richiama i dirigenti di notte, che telefona ai giocatori dopo una sconfitta per sapere se stanno bene. “Legarsi all'Inter vuol dire essere pronti a vivere una vita emozionante, costantemente emozionante. È come uno che fa un viaggio d'avventura, non è un viaggio comodo, è un viaggio che può essere scomodo ma che ti dà tante di quelle emozioni che ti rimane in mente. Questa è l'Inter”, racconterà. Nessuno meglio di lui l’ha incarnata. E l’Inter, con Moratti, è davvero un’avventura. Tra panchine saltate e ripensamenti, tra slanci di fiducia e divorzi lampo.

Si succedono Hodgson, Simoni, Lippi, Tardelli, Cúper, Zaccheroni, Mancini, fino al nome che più di ogni altro segna la sua storia: José Mourinho. Quando lo sceglie, nel 2008, è per completare l’opera. E l’opera, nel 2010, arriva a compimento. Scudetto, Coppa Italia, Champions League, poi Supercoppa italiana e Mondiale per club. È il Triplete, l’unico nella storia del calcio italiano. È la notte di Madrid, con Zanetti che alza la coppa e Mourinho che piange nell’abbraccio con Materazzi, e con Moratti che osserva tutto come un padre che ha appena visto realizzarsi il sogno di una vita. “Quando ci siamo riusciti, abbiamo vinto tutto”, dirà. Ma non è solo una frase: è il sigillo su un sogno lungo quarantacinque anni. Ma per capire Moratti, non si può dimenticare il suo rapporto con la Juventus. Un antagonismo mai urlato, ma viscerale, etico. “La Juve in quegli anni era un muro, faceva disperare nel senso che toglieva la speranza per quello che c’era dietro. C’era questo muro oltre il quale non si poteva andare. Calciopoli resta una delle pagine più brutte del nostro calcio, da dimenticare. All’estero non ho mai avuto un nemico fisso, anche se il Manchester United ci ha fatto soffrire”. Quel “muro” è stato per anni l’ostacolo a ogni ambizione, la sfida sistemica contro cui Moratti ha lottato. E quando quel muro è crollato, l’Inter ha costruito il suo impero. “Il fascino dell’Inter è il piacere della sofferenza”, diceva. E lui quella sofferenza l’ha abbracciata come parte integrante della bellezza.

Ha vissuto l’Inter nella carne e nel sangue, nel bene e nel male, senza mai tirarsi indietro. Ha acquistato Zamorano, Djorkaeff, Vieri, Baggio, Crespo, Stankovic, Sneijder, Milito, Samuel, Maicon, Lucio, Cambiasso, Eto’o, Thiago Motta, Julio Cesar, Toldo, Cordoba, Chivu, li ha messi tutti attorno al totem Zanetti, e ha dato forma all’Inter più forte di sempre. Ha dato spazio a Oriali, a Facchetti, a Branca. Ha costruito una macchina da guerra che era anche una famiglia. E tra i colpi di cui va più fiero, uno spicca su tutti: “Pirlo, anche perché fu una trattativa condotta personalmente. Firmai il contratto in ascensore dopo aver detto al presidente del Brescia che bisognava chiudere in fretta”. Ma è lo stesso Pirlo a rappresentare anche il suo rimpianto più grande: “Fu un errore cederlo, per di più al Milan. Una sorta di Calhanoglu al contrario, anche se il turco era andato in scadenza”.

Nel 2018, la famiglia Moratti è entrata nella Hall of Fame nerazzurra. Un omaggio necessario, perché nessuno ha mai rappresentato l’interismo come Massimo. Un presidente che ha fatto dell’Inter una missione personale, che ha messo l’anima davanti alla logica, che ha trasformato il tifo in politica sportiva, che ha amato il calcio con la purezza di un bambino e la tenacia di un patriarca. Oggi, a ottant’anni, Massimo Moratti non è solo un uomo che ha scritto la storia dell’Inter. È un monumento vivente a quello che dovrebbe essere il calcio: passione, appartenenza, fedeltà. Ha dato tutto, spesso ha ricevuto poco, ma non ha mai chiesto nulla indietro. Se non una cosa: vedere l’Inter vincere. E anche quando ha lasciato la presidenza nel 2013, e poi il ruolo onorario nel 2014, non se n’è mai andato davvero. Massimo Moratti ha vissuto l’Inter come si vive un amore vero. A volte ti spezza, a volte ti delude, ma quando funziona, ti cambia la vita per sempre. E lui, alla nostra Inter, la vita l’ha cambiata davvero. E noi, oggi, non gli diciamo solo “buon compleanno”. Gli diciamo: grazie, presidente. Per sempre.