Alla luce dell’incontro di Melfi che ha dato via al tavolo sindacale tra Stellantis, governo, regioni e associazioni di categoria sul futuro dell’auto italiana e delle parole del ministro Adolfo Urso e della casa automobilistica franco-anglo-olandese-americana (tutto fuorché italiana) l’unico commento che viene in mente richiama a una parabola del Vangelo di Matteo. Per la precisione Matteo 7, 26: la storia dello stolto che costruì la sua casa sulla sabbia.
I castelli in aria dell’auto italiana
Gli stolti sembrano essere gli interlocutori di questo teatrino. La casa è il futuro del settore auto italiano. La sabbia quella delle promesse e delle parole che assomigliano a numeri in libertà più che a concrete prospettive. “Parole, parole” direbbe Mina guardando alle cifre che Stellantis e il ministro delle Imprese e del Made in Italy hanno messo in campo. La casa automobilistica nata dalla fusione Psa-Fca ha promesso di riportare la produzione auto in Italia a un milione di unità. Più del doppio delle 473mila sfornate dalle fabbriche nazionali nel 2022, comunque meno degli 1,4 milioni di inizio millennio. Inizio di un declino inesorabile che ha cancellato due terzi della nostra capacità produttiva. Urso ha parlato di 6 miliardi di euro di fondi da destinare all’incentivo per la costruzione di nuovi impianti e sussidi agli acquisti di auto immatricolate in Italia. Tuonando poi sul fatto che è impensabile che l’80% delle auto vendute e sussidiate in Italia sia di produzione straniera. Peccato che sul primo fronte l’obiettivo di Stellantis sia alla prova dei fatti un altro e che sul secondo fronte si rischi di reiterare gli errori del passato tra demagogia e fallacie logiche. Partiamo da queste ultime. Urso da un lato prevede ulteriori sussidi alle politiche che Stellantis vorrà implementare per costruire strategie volte a insediare impianti produttivi. Il gruppo Fiat e i suoi eredi dal 1975 a oggi hanno ottenuto dallo Stato italiano la vertiginosa somma di 220 miliardi di euro (al cambio attuale). Tutto questo mentre per almeno venticinque anni la tendenza alla delocalizzazione e alla distribuzione della produzione in altri scenari industriali non si è certamente esaurita o invertita. Ci chiediamo cosa potrebbe andare storto nel dare ulteriori risorse “chiavi in mano” a un gruppo che ormai non ha più, come abbiamo spiegato, l’Italia come suo core business. Così come ci riserviamo di approfondire le parole di Urso sul fronte dei sussidi: buona parte dei sussidi e degli incentivi vanno ad auto prodotte all’estero per una semplice questione aritmetica. L’Italia sforna meno di 500mila autovetture ma ne immatricola ogni anno 1,4 milioni. Tutto qui: il mercato si può condizionare, piegare e scavalcare su molti fronti, non sull’aritmetica.
Quale sbocco per l’industria?
In quanto a Stellantis, i numeri in libertà sull’impegno a produrre un milione di autovetture, entusiasticamente applauditi da Urso, sono quantomeno in controtendenza con la decisione, anche solo simbolica, di dismettere un impianto, quello Maserati di Grugliasco, che ha prodotto di recente l’ultima Ghibli destinata al mercato Usa. Il sogno di Sergio Marchionne per una fabbrica alle porte di Torino si è esaurito sulla scia di un processo che ha portato Stellantis a mettere in vendita l’impianto…online! In quanto a onestà intellettuale spiccano le parole del responsabile Corporate Affairs Italia di Stellantis, Davide Mele, per il quale la questione è da vedere a livello di ecosistema: "A settembre, nel complesso industriale di Mirafiori", ha spiegato Mele, "abbiamo inaugurato l'innovativo Battery Technology Center che permetterà di testare e sviluppare i pacchi batteria per i veicoli elettrici che alimenteranno i futuri prodotti della gamma Stellantis. Due settimane fa, invece, Stellantis ha celebrato, sempre nell'area di Mirafiori, l'apertura ufficiale del suo Circular Economy Hub, che mira ad allungare la vita di componenti e veicoli, garantendone una maggiore durata. Per i due progetti l'investimento totale è stato di oltre 80 milioni di euro". Urso, come titolare del ministero che gestisce le politiche industriali, e i vertici di Stellantis dovrebbero ragionare più a livello di filiera.
Un numero simbolico di auto prodotte è una parola al vento. Un disegno industriale coerente, improntato a una visione di sistema può e deve considerare quei settori in cui l’Italia può inserirsi a più alti livelli in una catena del valore che vedrà la componentistica sempre più strategica. Sfavorita dall’assenza di un ragionamento di sistema dei gruppi di Stellantis sull’elettrico, l’Italia può far valere la sua centralità sulla filiera e sui componenti più strategici per ridurre l’impatto - che ci sarà - della sterzata al 100% elettrico sul suo sistema industriale. Le colpe dell’ex Fiat e quelle del governo, lo ribadiamo, convergono una volta di più: annuncite unita all’assenza di una vera dedizione per un piano orientato all’auto italiana da un lato, fissazione di target impossibili da raggiungere sulla produzione di veicoli finiti in una fase in cui sulla corsa all’elettrico sarà il fattore costo a fare la differenza unita alla mancanza di una strategia di riqualificazione e di un piano di contingenza dall’altro. Qualche spiraglio c’è, e lo Stato deve guardare a molte strutture che esulino dal solo settore auto: le strategie di Glencore e Li-Cycle in Sardegna per un impianto di riciclo delle batterie, i piani per aumentare il tasso di recupero in ottemperanza al Critical Raw Materials Act e una vera legge sul rilancio delle miniere strategiche per materiali come il litio possono aiutare. Ma Stellantis e il settore auto devono pensare di essere solo uno degli attori potenzialmente toccabili da questa svolta. E non necessariamente beneficiari di sussidi e aiuti pubblici promessi dallo Stato senza la garanzia di veri, ponderati e lungimiranti investimenti.