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A Roma le vesciche piangono, è allarme bagni pubblici: e Fulvio Abbate in vista del Giubileo lancia il Comitato per il ritorno dei vespasiani

  • di Fulvio Abbate Fulvio Abbate

3 agosto 2024

A Roma le vesciche piangono, è allarme bagni pubblici: e Fulvio Abbate in vista del Giubileo lancia il Comitato per il ritorno dei vespasiani
A Roma è quasi impossibile trovare un bagno pubblico quando serve (figuriamoci uno funzionante e minimamente accessibile). Un problema che rischia di peggiorare in maniera esponenziale in vista del Giubileo nella Capitale. Per questo Fulvio Abbate lancia il Comitato per il ritorno dei vespasiani e fa un appello quasi fisiologico, nel nome della vescica collettiva del popolo: “Fate presto”

di Fulvio Abbate Fulvio Abbate

Ridateci i vespasiani! Esattamente i cessi pubblici. E fate presto, rimetteteli prima possibile. Mancano al paesaggio cittadino, così come le edicole. Sono le nostre stesse vesciche, i nostri stessi sfinteri a pronunciare con urgenza questo “civile” appello politico. La richiesta, sappiatelo, muove da Roma. Può essere tuttavia estesa con altrettanto vigore fisiologico all’intero territorio nazionale, l’intero Stivale ove tale servizio si mostri assente o abbattuto; isole comprese, anche le minori.

Restando nel particolare cittadino a noi più prossimo, occorre sapere che nella prospettiva davvero imminente del prossimo Giubileo, pensando infatti alle nostre persone, sempre avendo cura delle vesciche, degli sfinteri minacciati dall’assenza di bagni pubblici adeguati, nei giorni scorsi, chi scrive, residente romano quarantennale, ha così deciso di dare vita al Cprv. Leggi: Comitato per il ritorno dei vespasiani. Bene pubblico, bene comune, tra più necessari e “urgenti” – ripeto: urgenti - tra i cosiddetti diritti minimi di cittadinanza.

Da decenni l’Urbe ne è infatti sprovvista. Se ne intuisce drammaticamente l’assenza, non necessariamente dalla prospettiva, in bermuda, dei turisti temporanei: borraccia, zaino e, pensando ai visitatori delle meraviglie monumentali venuti dall’estero: “bonnie hat” tattico per ripararsi dal sole e la calura, come già le truppe canadesi che liberarono l’Italia, tra gli altri, dai nazifascisti.

Uno dei pochi (e malmessi) bagni pubblici di Roma
Uno dei pochi (e malmessi) bagni pubblici di Roma

L’ultimo pubblico ricordo che trattengo, sempre in tema di vespasiani, ne mostrava sicuramente due, troneggianti, rassicuranti, ciclopici, di cemento precompresso d’epoca littoria, razionalismo non meno precompresso, una forma assimilabile agli elmetti “Mod. Adrian” della Grande Guerra che campeggiano nel simbolo delle associazioni combattentistiche e dei reduci e ancora nello stemma di Sabaudia, laggiù nell’“Agro redento”; sovranismo vescicale, appunto. Presenti sul lungotevere in corrispondenza del “Palazzaccio”. Dove ora ha sede la Cassazione, un tempo era il tribunale cittadino, costruzione spettrale, concepita fin nelle sue lesene e nel corredo di statue notarili come sentinelle per incutere timore al vero o presunto reo. In entrambi i manufatti, tracciata con vernice notturna, figurava una scritta ingiuriosa contro un presunto avvocato e le sue presunte abitudini intime.

Parole ignobili, delittuose, che tuttavia facevano parte dell’insieme segnaletico, decisamente letterario, cittadino. Insieme al volto all’ignoto avvocato Roma ha perso traccia negli ultimi decenni d’ogni necessario vespasiano, orinatoio, pubblico cesso o cacat*io, o che dir poeticamente si voglia.

Ripeto, ignoriamo la sorte del vilipeso avvocato, se davvero costui sia mai esistito, se davvero abbia sempre costui mai indossato davvero una toga con scarsi profitti, condannando per imperizia i clienti a pene inclementi, l’unica certezza rimasta, tuttavia, lo si è detto, mostra semmai l’assenza dei vespasiani, svaniti, abbattuti, cancellati, forse per ragioni igieniche, forse per dare credito e ristoro al decoro pubblico, salvare le narici del passante dal fetore, per impossibilità da parte dell’azienda preposta alla monnezza di averne cura, ritenuti magari luoghi, tane, antri maleodoranti destinati ad atti peccaminosi imperdonabili, irricevibili sotto il cielo che un passo oltre inquadra la cupola della basilica di San Pietro. Un’operazione di polizia-pulizia che evidentemente non ha mai fatto caso ai versi orfici del poeta Sandro Penna che così li riassumeva: “Nel fresco orinatoio della stazione sono disceso dalla collina ardente. Sulla mia pelle polvere e sudore m'inebbriano. Negli occhi ancora canta il sole. Anima e corpo ora abbandono fra la lucida bianca porcellana”.

Ora, a dispetto d’ogni plausibile bisogno di igiene, nel tempo, lo stimolo di orinare e defecare è rimasto intatto, immutato nel cuore della razza umana. Altrettanto intatti, richiedenti e pressanti gli organi che consentono le funzioni fisiologiche.

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Il logo del Comitato per il ritorno dei vespasiani di Fulvio Abbate
Il logo del Comitato per il ritorno dei vespasiani di Fulvio Abbate

Il premio Nobel Dario Fo, in un suo spettacolo assai applaudito un tempo, attribuiva l’esistenza “tecnica” d’ogni sfintere al malumore, peggio, al risentimento dell’Altissimo dinanzi all’osceno peccato originale. Se solo Adamo ed Eva non avessero malauguratamente colto la mela dall’albero delle origini, forse, il c*lo non recherebbe un foro, così come, idem, il caz*o; sarebbero rimaste superfici sferica piene, e la vescica stessa mai stata creata.

Un forum presente in rete prova a dare risposte circa la loro assenza. Gatto Magico, qualificatosi come ex operaio, ritiene di conoscere le ragioni della loro scomparsa: “Li hanno fatti chiudere i proprietari dei bar per obbligare la gente a fare le consumazioni”. Gli fa eco il signor Corrado Gorla, pronto a sottolineare il risvolto repressivo, la minzione negata: “È anche vietato pisciare nei fossi o dietro gli alberi, condannabile da norme giuridiche. In pratica è vietato aver voglia di urinare”.

Anni fa, su una bancarella nei pressi del Pantheon, ho avuto modo di trovare una pubblicazione, un libricino di modesto formato, senza indicazione editoriale né data, che li censiva tutti, proprio i vespasiani di Roma, così come il compositore Ottorino Respighi ha fatto con i pini, quartiere per quartiere, zona per zona, perfino Ostia, oltre i suoi bomboloni alla crema, poteva vantarne certamente alcuni. Vi erano citati anche quelli che hanno avuto evidenza cinematografica. In piazza degli Zingari, rione Monti, non lontano da via Panisperna, celebre per la scuola di fisica teorica che negli anni Trenta raccoglieva intorno a Enrico Fermi un gruppo di scienziati italiani, quasi tutti molto giovani, la cui principale scoperta riguardava la proprietà dei neutroni lenti che diede avvio infine alla realizzazione della bomba atomica, c’era modo di ammirare un esempio di vespasiano che appare anche in una scena del film “La banda degli onesti” con Totò, così come a Trastevere, in via San Michele, Pasolini ha mostrato un vespasiano, in ghisa, accostato al muro perimetrale della Manifattura tabacchi: è una scena di “Accattone” dove Balilla, coadiuvato dal Cartagine finge di orinare adocchiando un camion di salumi di cui presto impossessarsi.

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Il tentativo lodevole eppure insufficiente di introdurre altri vespasiani, modelli più moderni, futuristici, automatizzati, accessoriati, attraverso i quali accedere introducendo una moneta nell’apposita fessura, si è rivelato infine fallimentare, forse per assenza di risorse, cura o indifferenza all’intera questione da parte dell’amministrazione pubblica, in questo caso capitolina.

Tra il quartiere Testaccio e l’Aventino, in viale Manlio Gelsomini, c’era modo di ammirarne un modello di forma cilindrica, d’acciaio, simile all’org*smometro che appare nel film “Il dormiglione” di Woody Allen. Il rischio di rimanere prigionieri, impossibilitati a uscirne dopo averne fatto uso lo abbiamo provato sulla nostra stessa pelle, per non citare l’assenza di un necessario rotolo di carta igienica.

Il Comitato, innalzando l’antico libricino come fosse vangelo, attende con urgenza una risposta dirimente. Fate presto: l’urgenza chiama, impossibile trattenersi oltre.

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