Il giallo relativo alla morte di Simonetta Cesaroni, consumatosi il 7 agosto 1990, è il cold case per eccellenza. Tutti, addetti ai lavori e non, negli anni non hanno mai smesso di ricercare la verità. Una verità che è stata purtroppo compromessa anche dal tipo di tecniche investigative impiegate all’epoca dei fatti. Ne abbiamo già parlato con Liliana Resinovich e con il delitto di Pierina Paganelli. Il delitto perfetto non esiste, al massimo resta impunito. Come impunito sembra forse destinato a rimanere il delitto di via Poma. Ma non dimenticate mai due cose: i reati come l’omicidio non si prescrivono mai. Come se non bastasse, in ambito criminale investigativo vale sempre una massima: il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. E allora addentriamoci in questo caso “a pista fredda”. Con il termine pista fredda si fa riferimento a tutti quei delitti archiviati senza un colpevole per prove assenti o insufficienti. Come dicevo, certi reati, e con essi le ferite ancora sanguinanti, non si prescrivono mai. Secondo un’informativa dei carabinieri datata 25 ottobre 2023 Simonetta Cesaroni sarebbe stata uccisa da Mario Vanacore, il figlio del ex portiere della palazzina in cui si trovavano gli uffici dell’Aiag, l’ente preposto alla gestione degli alberghi della gioventù per i quali la giovane lavorava. Secondo quanto concluso dai carabinieri, il sangue repertato sulla maniglia della porta e sul telefono di quegli stessi uffici apparterrebbe al gruppo sanguigno A. Lo stesso di Mario Vanacore. Un risultato che all’epoca non sembrava combaciare. Sempre secondo la relazione, Mario potrebbe aver ucciso Simonetta per un rifiuto sessuale. Un rifiuto che, a prescindere da chi l’abbia uccisa, c’è stato. Di questa ricostruzione non sembra essere convinta la Procura di Roma che ha chiesto l’archiviazione. Nonostante siano passati trentaquattro anni, ad alimentare i dubbi, che potrebbero essere sopiti con la ripetizione dei test genetici, c’è sicuramente l’atteggiamento dell’ex portinaio di via Poma, Pietrino Vanacore.
Simonetta è stata massacrata con ventinove colpi, inferti con un’arma da punta e da taglio, presumibilmente un taglia carte. Il suo corpo esanime è stato rinvenuto nudo, eccezion fatta per il reggiseno allacciato ma abbassato verso il basso. Il corpetto che indossava era appoggiato sul ventre per occultare le ferite più profonde. Alcuni indumenti come i fuseaux e gli slip, oltre alle chiavi con le quali Simonetta ha aperto l’ufficio. Potremmo essere dinnanzi alla definitiva chiusura del cerchio? Del resto, l’informativa dei carabinieri potrebbe in parte giustificare l’estremo gesto autolesionistico commesso da Pietrino Vanacore, padre di Mario. Era il 12 marzo del 2010 e il portiere avrebbe dovuto essere stato sentito come testimone al momento della riapertura del processo. Tuttavia, piuttosto che deporre, ha preferito togliersi la vita in maniera plateale nella sua città natale, a Torre Ovo, nella località di Torricella in provincia di Taranto. Vanacore ha studiato accuratamente non solo le modalità per uccidersi, ma anche la comunicazione della sua uscita di scena. Ciò probabilmente perché risultasse evidente che la sua non era stata una semplice fuga bensì un estremo gesto. Utilizzando una lunga fune, si era legato a un piede e aveva assicurato l'altra estremità a un albero sulla scogliera. Dopo aver ingerito un anticrittogamico sciolto in una bottiglietta, si è così abbandonato al mare pugliese. E lo ha fatto disintegrando qualsiasi chance di collegare il suo ruolo al femminicidio di Simonetta Cesaroni. Peraltro, nella città a lui più cara e nella quale si era trasferito con la moglie Giuseppa De Luca dopo i terribili fatti che lo avevano travolto. Nella sua auto ha lasciato anche un biglietto d’addio: “Vent'anni di martirio e sofferenza ingiusta mi hanno spinto al suicidio”. Del resto, l’ex portinaio era stato il primo grande sospettato dell’omicidio di Simonetta, in primis perché sui suoi abiti era stato rinvenuto del sangue. In secondo luogo, Pietrino era stato arrestato l’11 agosto, tre giorni dopo il rinvenimento del cadavere, perché non era riuscito a dare un alibi plausibile nel momento in cui la Cesaroni veniva uscita. La sua scarcerazione intervenne dopo che si stabilì che il sangue rinvenuto sugli abiti apparteneva a lui. Sono rimaste, però, le ombre sulle difficoltà incontrate da Pietrino nello spiegare in maniera esaustiva che cosa avesse fatto nell’ora in cui Simonetta perdeva la vita.
Dichiarazioni particolarmente contraddittorie le sue. Che, stando all’ultima informativa dei carabinieri di Roma, potrebbero verosimilmente essersi rivelate tali con lo scopo di proteggere il figlio Mario. Quello stesso figlio che, appresa la notizia del suicidio del padre, aveva dichiarato alla stampa: “Mio padre è stato condannato senza un processo. È stato fatto a pezzi”. Probabilmente, informativa o non informativa, Pietrino si è tolto la vita perché aveva addosso un fardello insostenibile. Quello di chi sa chi è l’assassino e non riesce a convivere con il peso della coscienza. Questo a prescindere da chi sia l’effettivo colpevole. Si è ucciso all’alba dell’inizio del processo. Avrebbe dovuto parlare e raccontare che cosa sapeva. Ma soprattutto puntare il dito contro qualcuno. Immaginate se quel qualcuno potesse essere stato proprio suo figlio. Al momento, ciò che sappiamo è che, comunque, la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione della nuova inchiesta perché gli elementi a disposizione non sarebbero sufficientemente forti a instaurare un nuovo procedimento penale nei confronti di Mario Vanacore. Tuttavia, che Pietrino sapesse, lo ha sempre pensato forse anche Raniero Busco. Lo stesso Raniero Busco che poco prima di essere condannato in primo grado per essere l’assassino della fidanzata, dopo che il Ris di Parma aveva riscontrato una corrispondenza tra il Dna appartenete a Busco e le tracce di saliva rinvenute sul corpetto e sul reggiseno, aveva affidato al settimanale Oggi tutta una serie di dichiarazioni: “C’è chi sa e non parla. E assiste a tutto questo senza aiutare un innocente. Con che coscienza va a dormire? Come fa dopo vent’anni a vivere con questo macigno? Tu sai chi ha ucciso Simonetta per questo devi parlare”. Nonostante la condanna in primo grado per omicidio volontario, però, l’uomo è stato assolto sia in appello che in cassazione. Difatti, nessuna prova colloca Busco sulla scena del crimine. Lo stesso morso rinvenuto su uno dei seni di Simonetta era riconducibile addirittura ad un’altra conformazione della bocca. In questa direzione, trovare Dna di Busco su Simonetta non poteva considerarsi sufficiente. I due erano fidanzati. Piuttosto, non deve dimenticarsi come sulla scena del crimine, insieme agli effetti personali di Simonetta, sia stata rinvenuta anche l’agendina Lavazza dell’ex portinaio, che in un primo momento venne riconsegnata ai familiari della vittima perché creduta appartenente proprio a Simonetta. Secondo quanto ricostruito all’epoca dei fatti Pietrino aveva dimenticato la propria agenda dopo essersi trovato casualmente nell’ufficio e aver scoperto il corpo senza vita della giovane. In quel momento, però, sempre secondo la ricostruzione dell’epoca, anziché dare l’allarme e allertare le forze dell’ordine avrebbe preso tempo facendo una serie di chiamate ai dirigenti dell’Aiag. A quale scopo? Forse non lo sapremo mai perché quelle informazioni sono annegate il 12 marzo 2010 insieme a Pietrino Vanacore. Sul quale, il culto del sospetto, non si è mai placato.