Come se fosse difficile avere sempre qualcosa da raccontare, è diventata prassi comune sui principali quotidiani nazionali raccogliere e citare i commenti presi dai social. In un circolo vizioso di “controboomerismi”, potremmo dire che, se una volta portavi a casa il giornale e ci trovavi dentro il commento dell'intellettuale di turno, adesso apri il link della notizia, sullo stesso giornale, e ci trovi dentro i commenti dello zio Antonino, fresco fresco di spritz, della compagna di classe irrancidita dal mondo, del collega incazzato con la vita ma sempre pronto a farsi bello con il capo, della zia cinofila fondamentalista e misantropa. Se la nuda notizia è la parte di impatto, la componente semplicemente emozionale della comunicazione, il commento, in teoria dovrebbe servire a stimolare, raddrizzare la prima sensazione verso una qualche sorta di riflessione. Peccato che se segui la strada di uno che guida dopo essersi scolato dieci Campari col gin, in un attimo ti ritrovi in mezzo a una sventagliata di patologismi che farebbero venire le orecchie alle pagine del Dsm, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Ma il peggio è che, a volte, chi raccoglie i commenti per farne un articolo ci mette anche del suo, e qui le cose si complicano. In peggio. Il dieci dicembre sul sito di Repubblica è stato pubblicato un articolo dal titolo “Quei bambini spaventosi dalle urla animalesche: lo sfogo del ristorante sushi diventa un caso”. Ma sorvoliamo sull'ossimoro dei bambini spaventosi, soprassediamo sul fatto che i piccoli umani, tecnicamente, sono animali, passiamo oltre al fatto che un ristorante sushi non si può sfogare. Casomai, il ristoratore. Ma passiamo al succo. Anzi, al sushi, il cui dramma ci consente di fare un volo pindarico sulla cultura contemporanea, come se fosse un viaggio in aereo seduti al posto centrale, e da un lato hai Crepet e dall'altro nonno Elkann che legge Proust. Davanti, il generale Vannacci che reclina tutto lo schienale contro di te. Cito da Repubblica: “I piccoli portati a cena fuori nel posto sbagliato, quelli che per tossico e ancestrale senso di colpa definiamo esuberanti e vivaci, invece che fuori controllo, ineducati, maleducati. Ai cani, sculacciate, ai bimbi iPhone e iPad in mano. Così va”.
Piccola premessa: sono letteralmente intossicato dalla tossicità dell'utilizzo tossico della parola tossico, al punto che ogni volta che la trovo infilata in un discorso mi scatta un alert in testa, il quale mi segnala la possibilità di un discorso che cerca di nascondere una mancanza di contenuto sotto il tappetino della terminologia mainstream. Ora, è novità degli ultimi anni il fatto che si sia creata una distinzione tra posti per famiglie e posti dove la famiglie non possono accedere. Molti ristoranti e alcuni hotel applicano questa sorta di discrimine, che posso anche capire nel caso in cui negli esercizi commerciali in oggetto si svolgano attività strettamente adulte. Però, c'è qualcosa che non mi torna nel caso dei ristoranti. Perché un ristorante sushi, come suggerisce l'articolo di Riccardi, dovrebbe essere un posto sbagliato per i bambini? Anche se volessimo ammettere, come è implicito nel virgolettato che ho copiato poco sopra, che tutti i bambini sono potenzialmente esuberanti e vivaci ergo ineducati e maleducati, ciò equivarrebbe a ignorare il fatto che una buona fetta di ragazzini è Adhd, ovvero (prendo senza falsi pudori da Wikipedia) soffre di un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da problematiche nel mantenere l'attenzione ed eccessiva attività e/o difficoltà nel controllare il proprio comportamento. Vivendo nell'epoca dello stigma, direi che forse viene più facile stigmatizzare una problematica infantile e preadolescenziale, in quanto non abbiamo bambini Adhd influencer tali da poter difendere politicamente il proprio irrinunciabile diritto al sushi. A peggiorare ulteriormente le cose, arriva l'argomento monstre: immaginate la Brambilla, Crepet e il generale Vannacci che si fondono insieme, dando origine al paragone tra i bambini e i cani. La tesi è che ci vorrebbero un'educazione affettiva per i cani e un'educazione marziale per i bambini, come se la figura arcaica del padre severo, che è il concetto cardine del patriarcato, fosse da ripristinare. Curioso, no? Poi c'è il confronto tra le sculacciate ai cani e i tablet ai bambini.
Non sarà vero che i tablet li dai ai bambini casinisti per farli stare un po' seduti? Allora si vuole mangiare tranquilli e non vedere bambini col tablet? Il massimalismo paga raramente. E se i bambini che l'autrice definisce mini mostri che lanciano bacchette, buttano il cibo, scarabocchiano il menù, non fossero in realtà altro che il B-side di chi li accusa? Nei manuali di pedagogia troviamo due tendenze: l'iperprotezione dei figli e l'iper-responsabilizzazione. Fargli fare tutto ciò che vogliono, oppure vietare tutto. Prolungare l'infanzia o anticipare l'adolescenza. Rimandare l'autonomia del bambino, oppure anticiparla a un periodo in cui non può essere né capita né messa in pratica. Entrambe le tendenze, però, non fanno altro che trasformare il mini mostro in un maxi mostro. La richiesta di voler mangiare in un ambiente dove non ci siano inconvenienti di nessun tipo, infatti, cos'è se non è una domanda di iperprotezione? Allora che differenza c'è tra i bambini indiavolati al ristorante e la tizia che sogna un ristorante senza bambini indiavolati? Entrambi sognano un mondo senza Altri, che magari non siano cani. Peccato che le funzionalità cognitive dei cani non siano le stesse degli umani, e uno dei modi peggiori di amare i cani è quello di volerli pensare come esseri umani. Avete mai portato un gatto, invece, al ristorante? La chicca finale: “Si potrebbe anche dire sottovoce che almeno i ristoranti giapponesi potrebbero far pagare il sushi come costa in Giappone il ché sarebbe un deterrente per famiglie di insaziabili bambini”. Tradotto: i genitori poveri di bambini poveri sono matematicamente inadatti alla vita civile, dalla quale andrebbe forzatamente esclusi. Però magari la giornalista potrebbe andare da Cracco, se la povertà la urta così tanto. Educare i bambini al rispetto per gli altri vuol dire anche e soprattutto questo: non voler escludere nessuno.