Che i cambiamenti climatici siano una realtà con la quale dovremo prima o poi fare i conti, credo, è sotto gli occhi di tutti. Che Milano, la città che sostiene di essere più green delle altre, come del resto sostiene di essere la più europea, la più moderna, volendo anche la più futuristica, proprio con scelte legate all’ambiente non esattamente azzeccate, anche. Mentre l’acqua del Seveso continua a rendere la zona di Niguarda non troppo dissimile alla Venezia pre-Mose proviamo a fare un ragionamento a voce alta, partendo come sempre da lontano. Non sono mai stato un ambientalista. Lo dico ovviamente non con vanto, semmai con rammarico e rimpianto, forse anche con rimorso, anche perché mentre lo dico fuori dalla finestra sta diluviando, da giorni, e Milano è stata inondata dalle acque del Seveso, altre parti d’Italia da quelle di altri fiumi, si contano ormai sempre più spesso i morti. Non sono mai stato neanche uno di quelli che se ne frega dell’ambientalismo, per essere chiari. Provo, nel mio piccolo, a stare attento. Spengo le luci quando non servono, non solo a casa mia, non lascio cartacce in giro e pratico con attenzione la differenziata, limito l’utilizzo dell’auto, andando quando posso a piedi, la bici o il monopattino non fanno per me, tendo a usare la plastica il meno possibile. Certo, potrei fare di più, come non dico tutti, ma sicuramente molti, ma tocca anche fare i conti con la vita, che non sempre ci concede l’agio per poter attuare scelte etiche, perché dobbiamo fare i conti col tempo, col portafogli, con tante sfumature che sulla carta sembrano sempre meno evidenti. Non sono mai stato ambientalista, quindi, ma ho sempre pensato che la cura per l’ambiente sia necessaria, così come la presenza di spazi verdi, specie in città. Vivo a Milano, che da questo punto di vista offre alcune possibilità, ma a grandi linee è ancora piuttosto indietro, e guardo con una certa diffidenza alla apparente svolta green dell’amministrazione Sala, a mio avviso più di facciata che reale. Abbattere alberi per costruire musei, seppur dedicati alla resistenza, per dire, come è recentemente accaduto ai Giardini Garofalo, in Baiamonti, situazione attenzionata dai media per l’impegno profuso per provare a salvare i tigli secolari poi abbattuti da parte di Giovanni Storti, volto comico di Aldo Giovanni e Giacomo, da tempo votato a un ambientalismo decisamente non di facciata, mi sembra una gran cazzata. Così come togliere quelle poche aree verdi in giro per la città per costruire condomini, palazzi o quel che è, Milano è già sufficientemente cementificata, e non credo che porre sui balconi veri e propri giardini, come al Bosco Verticale e in altre nuove realtà che stanno sorgendo qui e là, sia la soluzione.
Quando a suo tempo la giunta Moratti ha abbattuto il Parco di Gioia, per dirla con Elio e le Storie Tese, “se ne sono sbattuti il cazzo/ ora tirano su un palazzo/ han distrutto il Parco di Gioia/ questi grandissimi figli di troia”, parole che chiudevano il brano Parco Sempione, la cosa poteva suonare quasi frutto di un’idea di urbanistica votata alla privatizzazione, qualcosa che chi votava a sinistra identificava, forse ingenuamente, con una visione liberista della gestione della cosa pubblica. Poi però c’è stato Pisapia, cui ha fatto seguito Sala, e a parte L’albero della vita e un tot di piste ciclabili, roba da esibire come record, trecento chilometri all’interno del perimetro cittadino, spesso piste partono da zero e non arrivano da nessuna parte, e anche una guerra talebana alle auto, l’Area C, l’Area B, lo stop alle Euro 5, i posti auto smantellati un po’ ovunque, spesso per far posto a tavoli da picnic o da ping pong, ora anche il parcheggio massimo di due ore in centro, contro certo parassitismo, ha detto improvvidamente il titolare di Palazzo Marino, e l’anno prossimo uno stop alle auto private nel cosiddetto Quadrilatero, di verde se ne continua a vedere poco, anzi, dove è possibile viene abbattuto per far posto a nuovi palazzi. Quella che viene venduta come una svolta green, esattamente come la svolta arcobaleno, sempre della medesima giunta, sembra una sapiente operazione di marketing. Anzi, una operazione di marketing e basta, perché nei fatti le magagne cominciano a essere fin troppo evidenti, la presenza ectoplasmatica del primo cittadino, più interessato a porsi sotto i riflettori che a occuparsi della città, vedi la recente comparsata nel promo del ritorno dei Club Dogo, accolto con un certo fastidio da quella porzione di cittadinanza che l’ha votato, l’altra invece pronta a gioirne come di fronte a un clamoroso autogoal. Proprio dall’abbattimento di uno spazio verde, l’ex, a questo punto, parco Bassini, si è mossa ormai circa un anno fa Leanò, giovane cantautrice milanese, per scrivere un brano che nei fatti parla d’amore, di rapporti interpersonali, e di una duplice maniera di vedere il mondo, di fatto andando a tratteggiare di Milano, che poi è anche il titolo del brano, una fotografia vagamente bipolare, individualista e votata a una frenesia quasi compulsiva, ma anche capace di grandi slanci di generosità e di accoglienza verso gli altri, di qualsiasi altro si tratti. Una forma di incoerenza sulla quale Milano, la città come la canzone, gira. L’impatto dell’urbanistica, quindi di come la città vada cambiando forma, su impulso di chi la guida, a livello amministrativo e economico, questo il ragionamento da cui Leanò, studi di antropolgia alle spalle, è partita, l’impatto dell’urbanistica sulla mentalità, quindi sui comportamenti della gente che quella città abita e frequenta. Qualcosa che risulterà familiare a chi legge queste pagine, la psicogeografia che vado citando a più riprese è in fondo esattamente questo, provare a delineare quei fili invisibili che portano da A a B e poi a tutte le altre lettere dell’alfabeto, luoghi e storie a fare da bussola. La musica, del resto, almeno quella porzione di musica che solo da noi ci ostiniamo scioccamente a chiamare leggera, bollandola come effimera, confondendo spesso la leggerezza per banalità, è una forma d’arte immediata, per chi l’ascolta, non a caso è la più diffusa in questo lacerto di storia così frammentato e accelerato, e per chi la produce, toh, magari per chi la produce no, ma per chi la distribuisce indubbiamente sì, sarebbe assurdo pensare che non sia la migliore cartina di tornasole per stabilire lo stato dell’arte, in senso ovviamente lato, oggi. E il fatto che abbia usato l’immagine della cartina di tornasole per indicare uno strumento efficace per decifrare l’oggi in questa società iperconnessa e accelerata, in fondo, è parte del discorso, le parole restano comunque uno strumento efficace ma antico.
Orientarsi quindi nella Milano del 2023, ok, il brano è uscito a fine 2022, ma poco o nulla è cambiato, se non con un veloce colpo di reni verso il peggio, attraverso una canzone che si intitola Milano, scritta provando a guardare alla Milano del 2023 per provare a decifrare la frastagliata mappa dei rapporti interpersonali, individualismo vs condivisione, frenesia vs volontà di conoscere l’altro, è operazione sulla carta azzeccatissima, in concreto ancora più azzeccata, perché Leanò non è una teorica, non solo, quanto piuttosto una interessantissima cantautrice, ispirata e di talento. Un electropop sgangherato, dove la sgangheratezza, quel procedere non in linea retta, rumori di fondo a costituire il cuore del suono, è l’incarnazione di quella frenesia così ben raccontata a parole, il giro di piano, certamente non meno sgangherato a aprire la melodia del ritornello, a rappresentare invece la possibilità concreta di un incontro, la speranza, forse, di una umanità che rischia di perdersi con gli alberi caduti. Il fatto che a anticiparne il video, su Youtube, sia la pubblicità di Uber, beh, che dire?, mi sembra molto coerente con tutto questo discorso. Milano, anche quella di Leanò, è pur sempre Milano, anch’essa di Leanò, a dirla tutta. Per tornare alla Parco Sempione di Elio e le Storie Tese, che prima di sferrare il colpo mortale alla giunta Moratti coi versi su menzionati citava la raccolta di firme fatta da Rocco Tanica, ex tastierista della band milanese, finite nel cesso, i lavori di abbattimento vennero fatti in velocità mentre la città era deserta a causa di un ponte, è di questi giorni, questi giorni in cui scrivo, una polemica che lo stesso Rocco Tanica, al secolo Sergio Conforti, sta portando avanti tramite i social con Palazzo Marino. A scatenare l’ira dell’artista l’ennesima esondazione del Seveso in zona Niguarda/Piazzale Istria, con conseguente porzione di città allagata, immobilizzata, danni per milioni di euro che si assommano a quelli dell’esondazione scorsa, presumibilmente durante la precedente pioggia. In zona vive sua madre, anziana e disabile, praticamente in ostaggio del maltempo e soprattutto di un Comune inerte di fronte agli allerta idrogeologica, tutti immancabilmente inascoltati. Una condizione che si perpetua da oltre un secolo, da quando cioè per cementificare la città si è deciso di interrare il fiume, facendolo quindi convergere in un canale che per dimensioni non riesce né mai riuscirà a contenerne la portata nel momento in cui salisse la piena. Un problema certo non solo milanese, ma che a Milano, in questa specifica parte, si fa sentire ogni qualvolta le piogge superano i limiti, il tutto senza alcun tipo di contromossa da parte dell’amministrazione, incapace di prevenire e di mettere in sicurezza una zona che oltre a centinaia di palazzi ospita, per dire, anche uno dei più importanti ospedali cittadini. Come nel caso delle proteste dei tanti manifestanti evidenziate da Giovanni Storti di Aldo Giovanni e Giacomo riguardo l’abbattimento dei tigli secolari dei Giardini Garofalo, anche in questo sembra che il dissenso da parte dei cittadini, anche di quelli più visibili, perché appartenenti al mondo dello spettacolo, volti e voci popolari, rimane inevaso, poco più di un rumore di fondo, come quelli che Leanò ha ricreato in studio per farne suono della sua Milano. Boschi che vengono sostituiti da palazzi, gli alberi trasferiti dai parchi ai balconi, fiumi il cui alveo viene interrato, per costruirci su la città, tutto torna. Magari a cantarlo invece che dirlo si otterrà qualche risultato migliore.