Statalista o liberale? La politica economica del governo Meloni deve doppiare diversi ostacoli nella sua costruzione e muoversi con i vincoli della ridotta fantasia imposta da equilibri di bilancio tutt’altro che clementi col Paese. E dipendenti in larga misura da questioni esterne come il rialzo dei tassi della Banca centrale europea e l’evoluzione del dibattito europeo sul Patto di stabilità in cui l’Italia può avere voce ma non potere di ultima istanza. Ne viene fuori una politica economica che prova a unire misure politiche bandiera e priorità pratiche, a raccattare risorse laddove c’è bisogno di fare cassa e a individuare, inevitabilmente, una platea di riferimento. Da sinistra questa serie di mosse viene letta nella lente del “neoliberismo”: il governo Meloni visto come esponente della difesa dei poteri forti contro poveri ed emarginati. La destra sociale vecchio stampo, invece, mugugna per le misure apparentemente più liberali e mira a influenzare Meloni su politiche che richiamino lo Stato a un ruolo di protagonista: la tassa sugli extraprofitti delle banche, il calmiere ai prezzi dei voli aerei e il ritorno dello Stato in Telecom-Tim sono esempi di queste manovre. I liberali “duri e puri” attaccano il governo per presunti eccessi su quest’ultimo fronte e ritardi sull’agenda liberalizzatrice. Mettendo sotto tiro in particolare il Ministro delle Imprese e Made in Italy Adolfo Urso, definito “Adolfo Urss” su Twitter per le sue presunte pulsioni stataliste.
Tutte queste chiavi di lettura sono insufficienti a spiegare l’agenda economica del governo Meloni. Il cui confuso mix tra riforme liberali e neo-statalismo si può leggere solo ed esclusivamente ex post rispetto a un’altra scelta politica: l’individuazione del campo di riferimento scelto come nocciolo duro del consenso per l’esecutivo. Un nocciolo duro che è l’unico capace di unire Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia e si può esprimere con un’espressione: piccola borghesia. Piccoli commercianti, partite Iva, titolari di imprese di media dimensione a bassa focalizzazione su innovazione tecnologica e di prodotto e decisi a contenere il costo del lavoro, imprenditori e membri del ceto dei dipendenti pubblici diffidenti dei grandi potentati economici e politici, a cui si aggiunge una serie di rentier di vario livello: tra questi, in primo luogo le piccole corporazioni divenute sempre più influenti con l’attuale esecutivo, ovvero tassisti, ambulanti, balneari. Il perimetro dell’agenda economica del governo Meloni sembra studiato per massimizzare consenso e approvazione di quest’area. Demandando a politiche ideologiche, posizioni-bandiera e pulsioni conservatrici, sovraniste, nazionaliste e identitarie la ricerca di consenso fuori da tale perimetro.
Scelte come l’abbattimento delle tutele sul lavoro e la fine della rete di protezione del reddito di cittadinanza favoriscono la creazione di valore delle imprese di piccola e media dimensione comprimendo il fattore-lavoro e incentivando un’occupazione di retroguardia, “di necessità”. La scelta del governo di non perseguire gli evasori, di parlare di “pizzo di Stato”, di porsi in maniera polemica col direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini, come ha ricordato Alberto Forchielli, denota una priorità nella scelta del pubblico di riferimento. Il “liberalismo” del governo Meloni, in fin dei conti, è funzionale a coltivare questo sistema elettorale e politico. Nessuna grande riforma su mercato, concorrenza e temi simili è stata pensata. Ma anche lo “statalismo” di cui l’esecutivo è accusato dai suoi detrattori, in fin dei conti, eccezion fatta per misure incentivate dal clima geopolitico come quella su Telecom, si riduce alla necessità di trovare sfogo alle pulsioni politiche di quest’area di riferimento: Matteo Salvini presentando il 7 agosto scorso la tassa sugli extraprofitti bancari ha messo cittadini e Pmi da un lato, e una presunta finanza predatoria e estrattrice dall’altro, seguendo un filone caro a molti commentatori vicini alla maggioranza come Mario Giordano e il team giornalistico de La Verità. Il governo ha dichiarato che i 2,5 miliardi di euro della misura correttiva dello Stato sulla finanza serviranno a ridurre le tasse a autonomi e Pmi, dunque alla sua platea di riferimento. A sua volta, anche la manovra contro il caro-voli risulta in fin dei conti in una mossa che liscia il pelo alla rivolta piccoloborghese contro un presunto “diritto alle vacanze” che si vedrebbe insediato da potentati lontani, questa volta i giganti del trasporto aereo.
La premier aveva poche alternative a questo equilibrismo, in un contesto che vede le grandi scelte di sistema blindate dalla necessità di compromessi con il potere che dura oltre i cicli politici e ha il suo cuore nel Quirinale, come dimostrano l’attento dialogo del Ministero dell’Economia e delle Finanze guidato da Giancarlo Giorgetti con Bruxelles e il Colle, l’accondiscendenza pragmatica di Meloni a nomine pubbliche non di rottura e l’ostentata continuità con Mario Draghi sull’agenda internazionale. Meloni vuole durare, durare a tutti i costi: per farlo necessita di una rendita elettorale. Nulla di strano e nulla di diverso da quanto fatto dai governi passati, da Berlusconi al centrosinistra per arrivare al Movimento Cinque Stelle che di una misura bandiera come il reddito di cittadinanza ha fatto un vessillo politico. Opportunismo e compromessi convivono creando, sicuramente, un mix che in questo governo mostra però grandi confusioni tra una presunta volontà modernizzatrice e la scelta di cavalcare una forma di liberalismo e una forma di statalismo che non sono nemmeno aggiornate all’era della competizione globale, del post-Covid, del post-Ucraina. Ma guardano al passato. E in fin dei conti mirano, nel desiderio della maggioranza, a nutrire la rendita elettorale piccolo-borghese di una parte di questo Paese che vive di rendite di posizione e della capacità di estrarre valore dalla staticità del sistema. Trovandosi alla perfezione in questo modello.