L’arte e la scienza camminano mano nella mano. Lo disse Leonardo Da Vinci, lo dice ancora Horacio Pagani. Il patron della casa automobilistica è passato dal Basement di Gianluca Gazzoli. Si parte da un punto: cos’è l’azienda Pagani? “La parte motivazionale è la più complessa. Ogni persona ha un potenziale enorme”. Si tratta “semplicemente” di coltivare quei semi. “La nostra missione, quella delle prime file, è quella di tenere cariche queste persone”, valorizzandone le competenze e il talento. Pagani racconta di aver avuto fin da bambino due passioni parallele: le materie scientifiche e l’arte. Nelle auto ha trovato una sintesi: “Già a 13 anni dicevo a mia madre: ‘Andrò a Modena a costruire le mie macchine’”. Sulle riviste vedeva la città dove si costruivano le auto da corsa. Le stesse di Juan Manuel Fangio, cinque volte campione del mondo di F1 argentino negli anni Cinquanta. È lì, alle gare, che ha mosso i primi passi. Fangio, che già si era ritirato, fece “per la seconda volta nella vita” una lettera di raccomandazione da inviare a vari costruttori modenesi, tra cui Enzo Ferrari. “I due incontri più interessanti sono stati quelli in Ferrari e Lamborghini”, prosegue Pagani. Però la competizione non era per lui: “Volevo disegnare le macchine da strada”, non quelle per la F1. Da lì il passo verso la Lamborghini. In quel periodo, tra l’altro, si sposa con Cristina Elizabeth Perez per “colpa” di una cassetta di Renato Zero, che ha dato l’idea per la proposta. Quando rincontra l’ingegnere Giulio Alfieri della Lamborghini gli dice: “Mi metta a pulire per terra, ma si ricordi che io sono venuto qui per fare la macchina più bella del mondo”. E dopo pochi mesi diventa operaio di terzo livello, quello più basso: “Ho dovuto imparare il bolognese prima dell’italiano. È stata una partenza bellissima, dal basso”. Poi diventa disegnatore. Pagani pose tre condizioni: poter uscire ed entrare dall’azienda, avere accesso all’archivio Lamborghini e la garanzia della “siesta” dopo pranzo. “Ma non sul divano: con il pigiama e tutto. La siesta è una cosa seria”.
Nel 1990 Horacio Pagani si era già messo in proprio quando comincia la guerra del Golfo. In quel momento, il più difficile, crea la macchina che cambia le cose: la Pagani Zonda. Le ispirazioni sono molte: si va dagli orologi Philippe Patek ai caccia. “Il nome l’hanno scelto dei miei amici dall’argentina”, lo stesso del vento delle Ande. Per fare una grande macchina, spiega il fondatore, serve capire il cliente: “Per vendere devi creare il vestito su misura per il cliente”. Imprenditori, persone già grandi che avevano la possibilità di comprare una macchina che costasse due o tre volte più delle altre. “Ho cercato di capire cosa potesse emozionarli”. La Zonda era diversa sia esteticamente che tecnicamente. Auto che seguono una linea unica, che hanno “un timbro”. Diverse da quelle che già c’erano. La prima vendita a Benny Caiola, a cui poi sono dedicati altri modelli sportivi della Pagani. Ma come mai le macchine Pagani ha un prezzo così elevato? “Noi ci mettiamo il meglio”, senza pensare ai costi di produzione. “Non facciamo prototipi: facciamo le macchine per tutto il mondo”. Questo significa crash test, omologazioni, rispetto delle leggi sulle emissioni. Produzioni così piccole e con così alti standard, naturalmente, hanno un costo superiore. Alcuni modelli di Pagani sono rientrati nella collezione di Horacio dopo essere state vendute. In alcuni casi il costo era salito di quattordici o diciassette volte rispetto al prezzo originale: “Le nostre auto sono tra quelle che si sono rivalutate di più nel corso degli anni”. “Ma un cittadino normale come fa a comprare una Pagani?”, chiede Gazzoli. Questo perché ci sono delle liste e una selezione dei clienti. La priorità è di coloro che hanno già acquistato. Poi c’è la scelta del cliente, basata sulla sua personalità, la cultura e le idee. La gran parte è fatta di persone “con un profilo basso”, non in cerca di visibilità. E chi riesce ad acquistare una Pagani c’è una cerimonia a cui partecipano molti dei lavoratori dell’azienda. “È un momento di condivisione tra il cliente e tutti coloro che hanno lavorato e si sono impegnati per costruire la macchina”, aggiunge il patron. Parliamo comunque di poche centinaia di clienti (in giro ci sono circa 600 modelli). Tra questi c’era anche Lewis Hamilton: “Ora è andato sull’elettrico? Secondo me alla Ferrari lo fanno tornare indietro”, dice Pagani che poi aggiunge: “Mi piacerebbe vederlo su una bella dodici cilindri…”. Horacio ammette di aver provato a portare sul mercato un modello elettrico, “abbiamo già fatto un team sette anni fa”. Insomma, tra i primi a provare a esplorare una produzione del genere. “L’Utopia l’abbiamo immaginata non ibrida, con motore e-turbo, e una full electric”. Fino al 2030 erano state stanziate decine di milioni. Ma nessun cliente ha mostrato interesse. “Chi si è messo a farle, con dei bellissimi progetti, non è stato premiato”. “Ci sono delle bellissime macchine che vanno fortissimo, sono oggetti molto interessanti, che però smetteranno di essere costruite. Il segmento è morto”. È il mondo a non essere pronto? “Il settore dell’automobile in generale ha puntato sul motore elettrico per la pressione della politica, le normative”, e quel 2035 come data cardine. Il problema per Pagani è che la questione è diventata ideologica, “e la scienza non è ideologica”. “Non siamo ancora pronti per questo. Deve essere una transizione lenta. Bisogna cercare il modo di produrre l’energia per caricare queste macchine. Abbiamo corso troppo e questo ha creato dei disastri nell’industria automobilistica”. Horacio aggiunge che anche aziende in Cina sono state colpite. La questione avrebbe dovuto essere gestita dalla comunità scientifica, poiché l'intervento politico ha provocato notevoli problemi, secondo il patron.

L’esclusività delle auto Pagani, dice Horacio, resta garantita, perché in ogni Paese c’è sempre un numero limitato di esemplari. La ricerca per la produzione di nuovi modelli è interamente autofinanziata. Non viene realizzato il motore, ma adesso “stiamo iniziando ad entrare nell’elettronica”. Questo è possibile anche grazie agli investimenti nella formazione e la scelta del personale. Ma conta anche l’attenzione ai dettagli, anche alle chiavi, costruite a forma di macchina per i bambini dei clienti, che prima trovano il giocattolo sul tavolo e poi la versione più grande in garage. Ma l’ispirazione più grande, per Pagani, viene dal passato: Leonardo Da Vinci. E ricorda una frase: “Chi non ama la vita non la merita”. Per quanto riguarda il presente, invece, ha preso da un suo collega l’idea di un pomello per il cambio. La forma ispirata era quella di culo. “Non posso dirti chi è”, spiega, “un giorno glielo dirò”. Tutto questo com’è stato possibile? Grazie alla siesta.

