Il caso della Silicon Valley Bank è la prova provata che il sistema bancario americano è incapace di fare quel che un ragazzino normodotato impara a fare a un certo punto della vita: darsi un limite, governare la propria avidità. La banca che venerdì 10 marzo ha chiuso i battenti trascinandosene dietro subito un’altra, la Signature Bank, e scatenando il panico sul quale prevedibilmente si è avventata la speculazione al ribasso, facendo crollare le Borse (Milano, per inciso, è stata la peggiore all’apertura di questo lunedì), è stata risucchiata nel solito gorgo: non ha fatto più la banca, ma il fondo di investimenti ad alto rischio, ovvero l’hedge fund. Ed è finita gambe all’aria. Da parte delle autorità europee viene scongiurato il pericolo di “contagio”, metafora ipocrita come se la paura di perdere i propri soldi equivalga a un’epidemia, a una calamità naturale, quando invece di naturale non ha niente. Ma in realtà un punto di domanda resta, anche se tutte le analisi concordano nel bocciare l’ipotesi di un crac mondiale sulla falsariga della crisi dei subprime del 2008.
Ma andiamo con ordine. La SVB, nata nel 1983, negli ultimi anni era divenuta un punto di riferimento fra i principali per le imprese high tech della Silicon Valley, la capitale globale del settore. Era una delle maggiori finanziatrici di start up, che rappresentano il cuore dell’innovazione tecnologica. Non era un istituto di prima fascia, perché con 200 miliardi di dollari di capitale era posizionato al sedicesimo posto nella classifica del credito statunitense. Tuttavia, aveva conosciuto un’impetuosa crescita dal 2017 in poi, moltiplicando i depositi da 44 miliardi ai 250 attuali. Perché è affondata, allora? Per due ordini di fattori. Primo: le aziende big tech hanno patito un drammatico effetto-rinculo dopo la pandemia, quando si erano finanziariamente gonfiate a dismisura, ma vedendo rovinosamente rimpicciolirsi le aspettative nell’ultimo anno, il che ha fatto andare in picchiata i loro titoli, causando licenziamenti in massa e un pericoloso raffreddamento d’interesse del mercato. La SVP, avendo commesso l’errore strategico di non diversificare ma di concentrarsi sulle big tech, è rimasta più esposta al calo. Secondo: un mese fa, la banca centrale americana, la Federal Reserve (Fed), ha deciso per l’ottava volta consecutiva di alzare i tassi d’interesse, cioè di far pagare più caro il costo del denaro per prestiti e mutui, in modo da calmierare l’inflazione. Tassi più alti significa maggiore difficoltà nella raccolta di fondi e investimenti.
Quel che sarebbe successo a stretto giro si sarebbe dovuto capire almeno due settimane fa, quando l’amministratore delegato della SVP ha venduto le proprie azioni della banca. Per la combinazione dei due fattori di cui sopra, è scattata la sofferenza, come si usa dire in gergo, e cioè l’istituto ha iniziato a vendere le obbligazioni miliardarie che aveva in pancia per poter disporre di liquidità da distribuire a chi cominciava a voler ritirare il proprio conto e, non riuscendovi, ha dovuto annunciare un aumento di capitale, che spesso è il segnale convenuto dell’imminente dipartita. Il 9 marzo la situazione è precipitata: è scattata la corsa agli sportelli (sia pur virtuali, oggidì) e il titolo ha perso il 60%, con conseguente procedura di commissariamento. Alle somme, è avvenuto quel che accade di regola nelle crisi della finanza: reggendosi in definitiva sulla fiducia di chi investe, venendo a mancare questa, è cascato il palco. Ed era un palco sorretto, al solito, da un gioco speculativo che comunemente si chiama truffa. Il meccanismo è stato il seguente: con l’espansione di depositi, cioè appunto di credito ossia di fiducia, negli ultimi anni, i dirigenti hanno deciso di investirli in titoli di Stato americani per una quota e in titoli garantiti da ipoteche per un’altra, tutti in ogni caso obbligazionari. Avendo però questi ultimi perso valore dopo i vari rialzi dei tassi, anziché essere aggiornati, sono stati mantenuti ai valori precedenti, creando una bolla. Ormai però la sfiducia lavorava nella vox populi del mercato, e l’ultimo rialzo stabilito dalla Fed ha dato il colpo di grazia.
Il problema che teoricamente può riguardare anche noi, intesi come terminali ultimi di un intreccio fra banche a livello planetario, è che fra gli ex clienti della SVP ce ne sono alcuni legati alle criptovalute. Ora, mentre per il mercato creditizio tradizionale le regolamentazioni europee di Basilea 3 sono più stringenti rispetto al lassismo americano per gli istituti di media stazza (com’era la Silicon Valley Bank), il mondo delle cripto non è adeguatamente normato. Ciò potrebbe provocare delle crisi a catena anche fuori dagli Stati Uniti, a sua volta rimbalzando fra i clienti delle banche “normali”. Inoltre, dovendo correre ai ripari di fronte a un buco dichiarato di 1,8 miliardi, l’amministrazione Biden ha deciso di garantire le perdite con un fondo di salvataggio finanziato, però, non con il bilancio pubblico, ma con risorse emergenziali dell’ente di controllo, la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic). Tradotto: con denaro delle altre banche. Se la motivazione politica di non gravare sui contribuenti ci sta tutta, è vero anche tale scelta fa ricadere eventuali futuri “rossi” sul sistema bancario, aumentando esponenzialmente la gravità di possibili altre crisi, le quali possono sempre propagarsi sull’intero globo terracqueo.
In tutto ciò, narciso come sempre è saltato fuori pure un Elon Musk tosto dichiaratosi, naturalmente via Twitter, “aperto al progetto” di rilevare la SVP per farne una banca digitale. L’idea, per la verità, gli è stata lanciata via social da Min-Liang Tian, fondatore e Ceo di Razer, famosa società americano-singaporiana di prodotti tecno. Il subitaneo interesse del patron della Tesla per un cadavere che rappresenta comunque la "linfa vitale dell’ecosistema tecnologico", come l’ha definito Ro Khanna, deputato californiano del Congresso Usa, si spiega forse con la psicologia muskiana, particolarmente intollerante alle sconfitte. Nel 1999, infatti, l’individuo più ricco del pianeta aveva tentato la strada, allora pionieristica, delle banche online, fondando la X.com. Fu un fallimento. Ma fallire è una parola che non esiste nel vocabolario di Musk. Mentre esiste eccome, e in solido, per coloro che ancora credono che le banche siano banche, dedite all’oculata cura del risparmio, e non semplici agenti della speculazione prossima ventura.