Dopo Phica, la polizia postale scopre un altro sito dove vengono sessualizzati i corpi: Instagram. Questa la battuta di Lercio, il giornale satirico dai titoli spesso provocatori e sarcastici. I commenti si possono immaginare. Chi la prende sul serio, chi parla di consenso, chi mangia gli immancabili popcorn. Le parole che finiscono in ismo si sprecano, gli insulti e le accuse anche. Chi ha ragione? Come spesso accade, dietro alla satira e al sarcasmo si nasconde una ricerca della verità. Nota storica: Instagram nasceva come app di ritocco delle foto brutte fatte con le scarse fotocamere dei vecchi smartphone. Dopodiché ci si erano iscritti praticamente tutti, e tutti avevamo iniziato a usarlo per metterci sopra le proprie foto brutte ritoccate, e tutti - sempre loro, i tutti - erano diventati così belli che dal vivo e senza i filtri addosso non li riconoscevi nemmeno. Poi era diventato il posto di lavoro di molte persone, maschi e femmine, che con le loro foto super belle delle vacanze in posti bellissimi e dei loro outfit super belli in posti bellissimi hanno iniziato a diventare famosi, rovinando il turismo e la concezione propriocettiva dell'estetica. Fuori dai paroloni: i corpi erano diventati immagini, quindi oggetti.

Se fosse una fiaba: agli oggetti non bastava essere soltanto oggetti. Ci si guadagnava, erano strumenti di lavoro. Volevano essere visti da tutti, perché più venivano visti e più si guadagnava. Così, un bel giorno, saltò fuori che i corpi portavano ancora più guadagno se venivano mostrati senza vestiti. Ma l'algoritmo cattivo vietava di farsi vedere vestiti soltanto con un completo di epidermide, allora ai corpi che nel frattempo erano diventati oggetti venne un'idea: si fecero vedere tutti in costume da bagno, con sotto scritto un aforisma rubato al vecchio Google che l'aveva rubato a Edgar Allan Poe, Federico Garcia Lorca, Charles Bukowski, Carlo Emilio Gadda ma soprattutto Steve Jobs, che l’intelligenza artificiale ancora non era nata. Poi cosa successe? Che l'algoritmo cattivo catturò tutti, perché capì che anche lui poteva guadagnarci. Così, continuava a proporre agli utenti soltanto foto di ragazze, donne e nonne in costume da bagno, in pose ammiccanti, anche se seguivi soltanto pagine di meme, di tornei di scacchi o di cultura, tanto che cominciarono a comparire anche foto di ragazze in costume che leggevano libri, o che mettevano le copertine dei loro nuovi Adelphi sotto i piedini smaltati.

Poi arrivarono anche i video brevi, e perfino i negozietti locali di abbigliamento iniziarono a inserire reel in cui la proprietaria o una commessa si mettevano e levavano i vestiti da vendere, arrivando a raggiungere un pubblico ben più ampio della propria cittadina da 40mila abitanti. Così, il circolo si chiuse: se volevi essere proposta o proposto agli altri utenti, la via più veloce era quella di mettersi in costume. In maniera consensuale, ovvio. La sessualizzazione presto diventò il vero motore dei social, e del plusvalore prodotto a partire da essi. Sessualizzazione per modo di dire, perché tutto era ammiccante ma casto, ben più pudico della televisione e del cinema anni Ottanta, basato sullo stesso meccanismo di funzionamento. Era un po' come se la storia dei mutandoni al David di Michelangelo fosse diventata la normalità. Una sessualizzazione dalla quale il sesso era bandito. Per tutti, ma non per i segaioli ribelli, che iniziarono a vedere le foto in costume come l'ennesima occasione per levarsi quel bisogno impellente, e che iniziarono a categorizzare, raccogliere, rubare le foto pubbliche per metterle altrove, e commentarle con gli altri come in un gigantesco circolo delle pippe. Come se fosse un modo per restituire alla sessualizzazione il suo significato originario. Come se la sessualizzazione di partenza non fosse abbastanza, né altro da quello che era, cioè lo stesso Instagram, cioè una tonnara per ingabbiare i pippaioli nelle varie stanze. E la battuta di Lercio, a questo punto, non era così lontana dalla verità.
Epilogo: porre la differenza intorno al consenso suona più come una giustificazione ex post che come un appello alla tutela. Non ci dovrebbe essere bisogno di specificarlo, ma ormai tocca: non stiamo parlando dei casi degli scatti voyeuristici, veramente rubati alle dirette interessate. Quelli fanno schifo. Parliamo dei personaggi pubblici che pubblicano le loro foto per pubblicizzare il proprio profilo pubblico, la propria immagine, il proprio brand personale. Si potrebbe pensare che il ragionamento sia l'equivalente del “te la sei cercata”, ma è ben diverso: la differenza è quella tra idealismo e realismo. A voi approfondire.

