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TELEMELONI? “DIAMOLA A MATTARELLA”: il critico tv Giorgio Simonelli sul disastro degli ascolti Rai. “Hanno costretto a far lavorare i brocchi. Tanto vale guardare Mediaset". Cattelan? "Anonimo”. E su censura, giovani e fiction…

  • di Jacopo Tona Jacopo Tona

12 maggio 2025

TELEMELONI? “DIAMOLA A MATTARELLA”: il critico tv Giorgio Simonelli sul disastro degli ascolti Rai. “Hanno costretto a far lavorare i brocchi. Tanto vale guardare Mediaset". Cattelan? "Anonimo”. E su censura, giovani e fiction…
Da Rai a falliRai? Ascolti da sagra, contenuti scopiazzati, idee zero. Sembra Mediaset ma fatta peggio, e la gestione spaesata delle quote politiche sembra aver dato la mazzata finale. Con Giorgio Simonelli, volto Rai di Tv Talk e docente universitario, siamo entrati nel cavallo. Altro che rilancio: Cattelan “Non buca lo schermo” e “scimmiottare Mediaset” nei format e nell'informazione non aiuta. L'intervista

di Jacopo Tona Jacopo Tona

La Rai è in crisi, da tempo e a prescindere dall'occupazione delle poltrone. Come abbiamo visto, però, i numeri dell'ultimo anno sono glaciali, e a livello teorico si rischia una perdita di quasi 200 milioni di euro. Ascolti in calo, programmi chiusi, spettatori in fuga, telecomandi con i primi tre tasti intatti. Ma i numeri da soli non bastano a spiegare una situazione che è nettamente più complessa del semplice dato: ci sono di mezzo la qualità, le idee, la politica, l'innovazione e la tradizione. Con Giorgio Simonelli che, oltre a essere ospite e fondatore del programma TvTalk in onda su Rai Tre, ha insegnato per diversi anni comunicazione radiotelevisiva e cinematografica in Cattolica, siamo entrati nel dettaglio. Una Rai che “scimmiotta Mediaset”, in cui la politica costringe a far lavorare dei “brocchi” e che non ha più idee, dove vuole andare? Spoiler: non la salverà Alessandro Cattelan. Al limite, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Il critico televisivo Giorgio Simonelli
Il critico televisivo Giorgio Simonelli

Professor Simonelli, dove sbaglia la Rai secondo lei?

Principalmente in due cose, anzi tre. La prima, che è una vecchissima storia, riguarda l’affidamento dei programmi secondo criteri partitici, piuttosto che meritocratici. Mi sembra che la nuova gestione della Rai abbia seguito un principio molto chiaro: recuperare figure che in passato erano state emarginate per motivi politici, inserire persone di fiducia e cercare di riequilibrare il tutto. Questo perché, secondo una certa narrazione apocalittica, la Rai sarebbe stata sbilanciata a sinistra, vittima della famosa egemonia culturale. Il problema è che questa logica ha riportato alla ribalta personaggi che, storicamente, non hanno mai garantito né grandi ascolti né successi significativi. Il secondo errore, altrettanto grave, è stato non considerare che un certo tipo di televisione è già occupato dalle reti Mediaset. Realizzare programmi con un orientamento. non solo politico, ma anche stilistico, simile a quello di Mediaset è stato un suicidio. Perché, se devo guardare una Rai che scimmiotta Mediaset, allora preferisco direttamente Mediaset.

La terza questione?

Anche la terza, come la prima, è molto datata: la Rai, in questa fase, si è rifugiata su alcuni volti consolidati che però iniziano a mostrare segni di usura. Rivediamo sempre le stesse facce. Eppure, laddove si è puntato su volti nuovi, le cose sono andate anche bene. Nella maggior parte dei casi, però, si sono riproposti personaggi e modalità televisive del passato, rischiando di scivolare nel vecchiume.

Facce nuove, cioè Stefano De Martino?

Esatto, pensavo proprio a De Martino.

Un programma come Se mi lasci non vale, che imita Temptation Island: ha senso riciclare i format?

La questione dei format è molto ampia. È evidente che oggi la televisione si muove attraverso i format: li si può adattare, certo, ma alla fine la sostanza resta quella. Nessuno ha più il coraggio di scommettere su programmi che non abbiano già avuto un rodaggio, come si diceva una volta per le auto, magari testati altrove. Secondo me è una politica sbagliata. Però oggi è difficile uscire da questa logica. Io l’ho sempre detto: la Rai, in quanto servizio pubblico, dovrebbe avere caratteristiche molto chiare, molto nette. E attenzione: questo non significa fare solo Alberto Angela, sia chiaro.

E cosa significa?

Significa che anche quando fai varietà, sport, o informazione, ovviamente, devi mantenere delle caratteristiche che rendano riconoscibile la tua natura di servizio pubblico. Se invece ti limiti a fare quello che fanno già gli altri, allora sbagli proprio l’approccio.

Manca l'innovazione?

Certo, questa è la cosa più difficile. Fare innovazione oggi è davvero complicato. Però, al di là dell’innovazione in senso stretto, anche restando nella tradizione, la riconoscibilità della Rai come servizio pubblico dovrebbe essere garantita. Faccio un esempio: un ambito in cui, nel bene e nel male, e io dico sempre più nel bene che nel male, la Rai si distingue, è la fiction. La fiction è stata spesso derisa, specialmente dopo la stagione dei “santini” e dopo la gestione un po’ scriteriata di qualche anno fa. Poi però è arrivata una nuova direzione di Rai Fiction, con Tinny Andreatta. Qualcuno dice: “Lì c’è una donna, e le donne sono meglio degli uomini”. Ma questa è un’altra delle favole che oggi si raccontano.

Però, almeno in questo caso, è vero?

Il punto è che lì si esprime un carattere della Rai un’identità, soprattutto nelle scelte di fiction popolare. Alcune sono belle, altre meno, ma comunque si percepisce un’impronta Rai. Ecco, la Rai dovrebbe recuperare questa distintività, come la chiamava un vecchio amministratore delegato, anche negli altri ambiti. Se invece si appiattisce sul contesto generale, che è quello della Tv commerciale e di Mediaset, allora sbaglia tutto. E ne paga le conseguenze.

Alberto Angela
Alberto Angela

Però, come abbiamo scritto su MOW, dati alla mano anche le fiction non vanno benissimo.

Sì, però in quel campo ci sono ancora dei successi. Il Conte di Montecristo, quest’anno, ha spopolato. Ma anche altre produzioni hanno funzionato. Tutti i vari Imma Tataranni,Rocco Schiavone e poi ancora: in questi casi la qualità è stata premiata. Ma anche altre cose che hanno funzionato soltanto parzialmente, comunque, hanno una certa qualità. Penso, ad esempio, alla fiction diretta da Susanna Nicchiarelli sulla Resistenza, Fuochi d'artificio, fatta in occasione del 25 aprile. Non ha ottenuto ascolti straordinari, ma è il segno che c’è un pensiero dietro. Si fanno delle fiction con una riflessione, pensando ovviamente anche agli ascolti, ma soprattutto con l’intento di proporre prodotti di qualità, ben radicati nel presente. A volte queste produzioni vengono accusate di inseguire troppo le mode, sì, ma mi sembra che lì ci sia comunque un pensiero Rai. A volte più riuscito, a volte meno. A volte c’è più qualità, a volte meno. Ma in quel settore, almeno, c’è una tradizione Rai che viene rispettata. Altrove, invece, si copia, o anche se non si copia direttamente, ci si lascia trascinare. Social compresi.

A proposito, Cattelan in Tv non è stato un successo. Sarà che i giovani non guardano la Tv?

La questione dei giovani è complicata. Il consumo televisivo dei giovani è in crisi non solo per quanto riguarda la Rai, ma in generale rispetto alla televisione stessa. I giovani oggi guardano la Tv in modi diversi: sui social, sul telefono, in maniera frammentata. Certo, il problema è anche quello di rispondere alle esigenze dei giovani, ma per me la vera questione è: cosa faranno questi giovani quando non saranno più giovani? Perché non resteranno sempre sedicenni. Quando avranno 30 o 40 anni, che cosa faranno? Il sedicenne di oggi, che non guarda assolutamente la Tv lineare, a 40 anni tornerà a guardarla o continuerà a rifiutarla? Questa è la grande domanda. Poi c’è anche un altro problema legato al bacino di riferimento: i giovani sono sempre meno. E questo è un dato di cui si parla pochissimo. Alla base di tutto c’è la demografia. In Italia i giovani sono pochissimi. Tutti ne parlano, ma in realtà non fanno massa, non rappresentano un pubblico numericamente significativo. Quindi non mi sorprende che la televisione, che ragiona in termini numerici, li trascuri. È semplice: i giovani sono pochi, gli anziani tantissimi.

Ok, ma Cattelan perché non funziona comunque?

Penso che non abbia una personalità televisiva così spiccata. È giovane, certo, ma le cose che fa le poteva fare anche Pippo Baudo. E non è un’offesa: Baudo era un grandissimo professionista. Però non vedo in Cattelan una reale novità dal punto di vista televisivo. Sicuramente è una persona corretta, con un certo entusiasmo, ma non mi sembra che ci sia un “linguaggio televisivo Cattelan”. Anzi, in TV mi pare piuttosto anonimo. Magari funziona meglio in altri contesti, ma in televisione quello che fa non si distingue. Quello che può fare lui lo può fare chiunque. Posso dirlo? Non buca lo schermo, come si diceva una volta.

Poi ci sono tutti i casi più eclatanti di programmi finiti male legati all'infotainment. 

Lì c’è un discorso legato all’idea di informazione. La nuova gestione della Rai, quella di destra, ha detto: “Facciamo l’informazione da un altro punto di vista”, e ha riempito i palinsesti di programmi d’informazione. A un certo punto si è arrivati a una saturazione. Perché uno dovrebbe guardarli? Queste sono state scelte fatte per accontentare qualcuno, per dare una dimostrazione: “Anche noi sappiamo fare informazione”. Ma non c’era una reale necessità di realizzare programmi del genere. Se guardi i palinsesti, soprattutto la seconda serata delle reti Rai, sono stati riempiti di programmi d’informazione più o meno simili, ma è roba che la gente guarda già su Rete 4, su Canale 5, ovunque. A meno che non ci sia qualcuno capace di fare un programma veramente diverso, con temi e linguaggi nuovi, non c’è motivo per seguire quelle trasmissioni. A meno che non si voglia semplicemente affermare un certo tipo di controllo sulla Rai. E mi meraviglio che ci sia gente disposta a farsi vedere in quelle condizioni, a fare certe figure.

Intanto i programmi che funzionavano sono passati alla concorrenza.

E continuano a funzionare, come la Berlinguer, anche se per certi versi è stranissimo che si sia affermata Rete 4 come la rete dell’informazione. Se uno vuole un’informazione aggressiva, caciarona, spettacolare nel senso peggiore del termine, allora va direttamente su Rete 4. Non va a cercare una novità, che novità non è, sulla Rai.

Ilary Blasi
Ilary Blasi

Cosa continua a funzionare in Rai?

Quello che la Rai già faceva: Report, Presa Diretta e simili. Programmi che rappresentano il marchio di una certa Rai di sinistra, diciamo, che ha un pubblico ben preciso. Un pubblico che oggi si è spostato su La7, ma che ritorna in Rai quando è il caso.

Tant’è che poi Report periodicamente provano a farlo chiudere.

Certo. Ma guarda caso, ogni volta che si parla di censura, si rilancia un programma. Non c’è niente come il tentativo di censura per rilanciare un prodotto.

La controcritica è che anche prima di Telemeloni la gestione era politica.

Su questo non c’è dubbio. Io sono d’accordo sul fatto che la Rai sia sempre stata gestita secondo equilibri e prevalenze politiche. Ma quelle prevalenze politiche possono portare a scegliere direttori, autori e conduttori capaci oppure dei brocchi. Il punto è che la gestione politica può produrre cose ben fatte oppure mal fatte. Può premiare persone capaci o persone che non sanno fare televisione. Può innovare e portare originalità, oppure può limitarsi a distribuire premi per appartenenza politica, o per presunta appartenenza politica. Questa storia che “la Rai deve essere sottratta alla politica” è una bella frase, ma non dice nulla. Togliamo la Rai alla politica, d’accordo, ma a chi la diamo? Chi la gestisce? Nessuno dà una risposta chiara. Se diciamo che la Rai non deve essere più controllata dai partiti, allora dobbiamo avere il coraggio di dire chi dovrebbe controllarla. E questa risposta non arriva mai.

Comunque anche le gestioni private sono politiche.

Sì, ma le gestioni private fanno quello che vogliono, rispondono ai loro dirigenti. La Rai è un’azienda pubblica. Quindi bisogna stabilire chi la deve gestire.

Per essere super partes, dovrebbe gestirla Mattarella?

Io ho sempre detto che bisognerebbe istituire un consiglio d’amministrazione della Rai nominato direttamente dal Presidente della Repubblica, senza consultare i partiti. Il Presidente decide: “Queste sono le persone che gestiranno la Rai”. Sarebbe una garanzia, non dico d’indipendenza assoluta, ma almeno di minore dipendenza.

Gli manca solo questa.

Se la dovrebbe vedere lui, d'altronde fa il Presidente della Repubblica!

Anche alla concorrenza non va tanto meglio: la chiusura di The Couple?

La concorrenza, a volte, sembra proprio che voglia farsi male da sola, insistendo su certe cose. Ha alcuni limiti evidenti. Uno è l’accanimento sui reality a sfondo erotico. Un altro è la fiction. Ormai non esiste più un marchio Mediaset della fiction. Mediaset, ai tempi di Berlusconi che, come sappiamo, amava molto le attrici, aveva una linea editoriale precisa: la scoperta delle telenovelas, di Dallas, delle soap. Era un mondo riconoscibile. La soap, per come la conosciamo in Italia, è figlia di Mediaset. Oggi, l’unica cosa che fanno è comprare serie turche. Per il resto, c’è davvero poco. Poi certo, Mediaset si rifà in altri ambiti: l’intrattenimento, Maria De Filippi, e tutte quelle cose lì. Riescono a occupare uno spazio in maniera molto precisa. Quella che chiamiamo “Tv popolare” in Mediaset è ancora abbastanza forte. È la linea Uomini e Donne, tutto quel mondo lì. Su quel fronte, Mediaset ha uno zoccolo duro. Non c’è nulla da fare.

Dallas
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