Sono passati vent’anni da quando è nato, il tempo vola. Il mito del garage, il mito degli hacker ma soprattutto il sogno di un nuovo territorio di sviluppo umano; internet. Facebook diventa adulto: questo il claim dal vago sapore paternalistico con il quale Mark Zuckerberg liquida le provvigioni (eufemismo) agli azionisti di Meta e incassa allegramente i suoi 700 milioni di dividendi, notizia fresca di questi giorni, dopo un anno non brillantissimo. Non è stata brillante l’operazione metaverso, anzi è stato un vero e proprio bagno di sangue per l’azienda di Menlo Park che è rimasta indietro rispetto a chi ha investito nell’Ai, vedasi Microsoft.
Prima di passare a fare qualche considerazione su questi gloriosi vent’anni passati insieme, vorrei ricordare che questa è stata una settimana calda per il Ceo di Meta Mark Zuckerberg, che è stato il protagonista mediatico della sua stessa scena social, ripreso più volte mentre si prostra davanti ai parenti delle vittime delle sue stesse piattaforme durante l’audizione del Congresso degli Stati Uniti. Vittime della falsa informazione, vittime di ricatti, induzione al suicidio, pedopornografia: tutti minori. La giovane America dei supereroi si sveglia dal letargo e vede il mostro in casa. Il Congresso si interroga e convoca i nuovi signori, padroni altissimi della terra e li interroga; tutto deve essere mediatico, un cliché propagandistico in perfetto stile imperiale. La scena è quella di un remake del processo di Norimberga in chiave hd, una sorta di simulacro ipocrita che servirà solo a produrre quintali di carte e quindi leggi sempre più repressive così che il capitalismo onnivoro possa porre le proprie regole feroci anche nel digitale, ultimo terreno di frontiera del neocolonialismo digitale avviato ancora una volta oltre oceano; una questione di mentalità. Così vediamo Mark quasi in lacrime ciclare su tutti i feed di notizie e il giorno dopo, lo vediamo postare sul suo account Instagram, guarda un po’, proprio una foto con il figlio di spalle, come a dire: “Questo è un posto sicuro”. Ancora una volta i bambini strumentalizzati come filtro verso le critiche, mi viene da pensare. Certo Mark, se questo mondo che hai plasmato fosse così sicuro perché ti saresti costruito un bunker antiapocalisse alle Hawaii? Il tuo livello di paranoia è alle stelle perché controllando il privato dei tuoi clienti hai visto l’orrore del quale ci hai voluto offrire solo argomenti filtrati a uso e consumo del miglior acquirente, non è così che siamo “diventati adulti”?
Mark, non ce la siamo passata benissimo negli ultimi vent’anni. Ci siamo dovuti sorbire ogni tipo di mitomane, gattini di ogni razza, preghiere alla Madonna di ogni genere, nazi, comunisti, truffatori che offrono corsi mirabolanti, uomini d’affari di circa diciannove anni con laurea all’università della strada, i politici, gli influencer, i microinfluencer e micropolitici e poi, ancora peggio, l’orrore di cinquantenni mai risolti che postano selfie in cambio di una dose di dopamina. Facebook ha cambiato il nostro modo di relazionarci al prossimo ma non ha cambiato i nostri contenuti, non siamo diventati migliori, anzi. Siamo regrediti, ragioniamo in modo dicotomico e binario il nostro cervello si attiva solo su scelte divisive, siamo intellettualmente ridotti ai minimi termini con questa storia dei like e con il mito del guadagno facile, tipo lotteria influencer. A proposito della progressione gloriosa di questa aziendina di bravi nerd dalla faccia pulita, c’è un interessante reportage, poi diventato libro “Facebook: l’inchiesta finale” di Cecilia Kang e Sheera Frenkel (due giornaliste del New York Times), dove emergono cose a dir poco inquietanti. Nel 2005 Facebook celebrava un anno di attività con un milione di utenti, una community importantissima con una struttura mastodontica dove la privacy era totalmente assente questo per volere di Zuck maniaco del controllo in nome della tecno religione e del progresso. C’è un racconto esilarante dove un dipendente Facebook anticipa di dieci appuntamenti la limonata con la ragazza perché ancora prima di vederla conosce i suoi gusti, tutte le sue conversazioni più segrete e tutte le chat private con la propria famiglia. Nei successivi dieci anni ci abbiamo pensato noi con grande costanza a educare l’algoritmo, postando informazioni sul nostro mondo privato, nemmeno Foucault avrebbe previsto questa aberrazione.
Nel 2018 si scopre che Facebook ha ceduto i dati di 90 milioni di account alla società di consulenza britannica Cambirdge Analytica che a sua volta si occuperà di propaganda politica sulla piattaforma per influenzare le intenzioni di voto degli utenti. Tutto quanto sopra senza l’autorizzazione dei diretti interessati, ovvero noi, gli utenti Facebook. “Il capitalismo della sorveglianza si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti. Alcuni di questi dati vengono usati per migliorare prodotti o servizi, ma il resto diventa un surplus comportamentale privato, sottoposto a un processo di lavorazione avanzato noto come intelligenza artificiale per essere trasformato in prodotti predittivi in grado di vaticinare cosa faremo immediatamente, tra poco e tra molto tempo. Infine, questi prodotti predittivi vengono scambiati in un nuovo tipo di mercato, il mercato dei comportamenti futuri. Grazie a tale commercio i capitalisti della sorveglianza (quelli convocati dal Congresso, nda), si sono arricchiti straordinariamente, dato che sono molte le aziende bisognose di conoscere i nostri comportamenti futuri”. Così scrive Shosanna Zuboff nel libro “Il Capitalismo della sorveglianza” nel 2019. Senza andare troppo nel dettaglio potremmo pensare che questo gigante è cresciuto mangiandosi la concorrenza e divorando ogni tipo di norma e, cosa peggiore, ogni etica morale in nome del guadagno.
Guadagni che non finiscono mai di fioccare come abbiamo visto. Guadagni sulla pelle dei dipendenti che sono stati licenziati. A marzo del 2023 vengono fatti fuori in 10 mila; i giornali indegnamente parleranno di “diecimila unità”. Facebook diventa adulto, vero, credo che invecchierà senza una gran parte di noi, anzi me lo auguro.