Dopo aver inaugurato a Roma vent’anni fa la stagione del rilancio omosex con Le fate ignoranti, su terrazze romane in quartieri dimenticati con vista gazometro, creando un immaginario modaiolo, Ferzan Ozpetek ha fatto assurgere quel vecchio gasdotto e tutta l’Ostiense a icone radical chic della Capitale. Tutte le ragazzine figlie di papi desiderose di sentirsi intellettuali indossando scialli gonnelloni a fiori e collanine, memori di quella famigerata terrazza abitata da una community variegata, diedero l’avvio a pellegrinaggi in zone popolari per aperitivi trendy, lì nelle borgate di ex baracche dove Pier Paolo Pasolini ambientava i suoi film. Iniziarono a fiorire murales del regista innamorato dei ragazzi di vita nel degrado urbano, dove, proprio lui che odiava queste espressioni stupidamente borghesi, assisteva muto a riunioni tra uno spritz e una patata “lime pecorino romano e pepe nero”, tra valori di sinistra in versione 2.0 smaltati e al modico prezzo di un gran tanto al chilo con nostalgie da Il meraviglioso mondo di Amelie. E scuole di cinema targate Fandango, certo. In quel periodo si ascoltava Emir Kusturica e Goran Bregovic come se non ci fosse stato altro e Due Destini di Tiromancino era la colonna sonora di ineluttabili deviazioni di pensiero, da un mood di quotidiano ormai superato, per abbracciare quello più alternativo – che presto si sarebbe sistematizzato a sua volta - con relativi film sull’omosessualità. Ancora non erano arrivati i primi Calcutta, Motta, Gazzelle e tutta la compagine di cosiddetto “indie” della scena romana, che per taluni costituirono il gaudio, mentre per talaltri il vero strazio. Queste suggestioni di terrazze e poveri quartieri rivalutati in chiave radical chic hanno spadroneggiato a Roma circa un ventennio, e proprio quando scemavano fasce per capelli e perline e l’ultimo hummus veniva spazzolato in serate allietate da chitarre vista Foro Boario, Ozpetek ci spiazza operando una sottrazione, nel suo ultimo film presentato alla Festa del Cinema, Nuovo Olimpo, togliendo la quota hipster e traslocando su un altro piano di comunicazione, sempre a Roma.
Il regista sposta il tutto a decenni prima che la fucina dei cosiddetti nuovi intellettuali impestasse il Pigneto e Ostiense dei succitati aperitivi radical chic e si rivolge all’utenza della Roma bene, lo studentato borghese che manifesta contro, indovinate un po’, il fascismo. Roma è famosa, forse più di altre città italiane, per il muoversi da circa sessant’anni entro la dicotomia fascismo/comunismo, senza schiodarsi di una virgola verso il superamento dialettico delle due categorie. Tutto questo portato avanti - da chi vi approda o chi la abita da sempre - con enorme alacrità, ciecamente, come muli convinti di camminare sul giusto tratturo, infervorandosi pure. Non diciamo di non occuparsene più, non sia mai. Ma così facendo Roma - e il resto del Paese - va a precludersi persino l’eventualità di accantonare il discorso per permettersi di pensare anche ad altro, offrendo a se stessa l’occasione di crescere, per esempio. Di nutrire altri argomenti, di darsi respiro. Questa fissità, questa reticenza ad affrancarsi, rimanendo nei suoi soliti stereotipi di cui è schiava e carnefice, dei quali si auto infligge colpe da espiare beandosene pure, ottusamente, sono alimentati anche da registi come Ozpetek, che ingorgano le grondaie di sfiato, alimentando gli emissari di stereotipie che affossano l’arte e che la affogano in un acquitrino del quale non si vede l’uscita.
La fotografia di Nuovo Olimpo è quella della Roma ripulita dalle rogne, propagandistica, quella patinata delle cartoline di “saluti da Roma”, lucida come una pellicola Netflix, senza tridimensionalità, come un ricordo restaurato dai segni del passare del tempo. Un film che ricordo vuole essere, che trascina in sé echi dal Giuseppe Tornatore di Nuovo Cinema Paradiso, con i suoi santi protettori e le sue vestali - una grande, felliniana Luisa Ranieri nei panni di Titti, per un omaggio a Mina in chiave partenopea - il suo pubblico - di giovani omosessuali - le partenze, gli addii, i ritorni dopo anni e l'amarezza che ne consegue nel rivangare le occasioni perdute passate. Enea Monte è l'eroe mitologico coraggioso e virtuoso di questo Olimpo con i suoi dèi; sullo sfondo la sua gens, quella romana, che lo accompagna verso la celebrità. Enea è il regista alter ego di Ozpetek, che ancora una volta trova nella dimensione della realtà omosessuale il suo campo libero. “Perché fai sempre film sull'omosessualità?” Fa chiedere nella pellicola al protagonista. “Direi piuttosto: perché gli altri la tolgono dai film?” È la risposta di Enea. È la storia di un amore a prima vista, quello tra Enea e Pietro, di un perdersi per anni e di un ritrovarsi dopo la cementificazione di sentimenti mai espressi in assenza di una libertà nella quale poter essere autentici.
Come sotto il maleficio che affligge il cinema italiano, il sentirsi ancorati all'eterna celebrazione dei tempi che furono, Ozpetek gioca sui punti forti cari a Cinecittà. Le scorribande in vespa di Vacanze Romane tra i fori imperiali, i fori imperiali, le ridondanze su Annarella e gli omaggi a lei rivolti in questa dichiarazione d’amore al cinema, le manifestazioni studentesche e le case romane con vista cupoloni, come se piovessero. Come se ogni romano a Roma si affacciasse su terrazzini con viste mozzafiato. Il tutto, finto e instagrammabile, condito di corpi maschili statuari con membri in libertà a manciate. Di certo se li è scelti palestrati. In questa mescolanza di istantanee tratte da un Vacanze Romane in chiave omosex, intrisa di echi di Nuovo Cinema Paradiso, l’erede di Stefano Accorsi, Damiano Gavino, tesse, con Andrea De Luigi e gli altri, una trama romantica in un contesto di retorica su una Roma strabordante di irreale bellezza, ma conduce lo spettatore nell’idea che è forse vero che gli amori impossibili restano per sempre. Che l’assenza leghi più della presenza. Tra corpi nudi e imboccate reciproche di marmellata alla Nove settimane e mezzo, Ozpetek mostra quanto pesi il tenere inespressa la propria dolorosa, passionale tensione amorosa, il peccato profondo del non poterla esteriorizzare e l’abominio di condurre una vita blindata nell’apparenza e nell’ipocrisia.
Al di là dell’accusa dell’auto ghettizzarsi nella dimensione del “regista dei film omosessuali”, di certo è questo il messaggio da non negare, in questo suo film. L’urgenza, cioè, di uscire dal segreto, di vivere l’assoluta limpidezza dei nostri amori, delle nostre emozioni, nella sacralità della loro forza, unica, legittima, senza cedere dinanzi alla mancanza di coraggio di gridarla senza vergogna.